“Earthrise. Visioni pre-ecologiche nell’arte italiana” (1967-1973) apre con la foto scattata da William Anders nel 1968, durante la missione spaziale Apollo 8.
Un’immagine che — all’altezza cronologica di due decenni in forte tensione politica — indica nella distanza da cui è osservata la Terra, la possibilità di una nuova dislocazione dello sguardo. Il rischio implicito in quest’immagine è quello di richiuderci nuovamente in una rappresentazione estetica che isola la natura come oggetto. Una rappresentazione che — come ci ricorda Marco Scotini, curatore della mostra — rimuovendo tutte le concatenazioni tra crisi ecologica, crisi finanziaria, crisi del lavoro, crisi della soggettività contemporanea ecc., apre «ad un campo privo di prospettive, ad una sorta di ecofascismo, ad una ideologia catastrofista senza sbocchi».
Già nel 1992 Fredric Jameson osservava in Postmodernismo. La logica culturale del tardo capitalismo:
Nessuna attuale teoria di sinistra relativa alla politica culturale è stata in grado di fare a meno della nozione di una sia pur minima distanza estetica, della possibilità di collocare l’atto culturale fuori dall’Essere enorme del capitale, e da qui attaccare quest’ultimo. […] Siamo a tal punto immersi nei suoi volumi stipati e saturi che i nostri corpi […] sono privati delle coordinate spaziali […] incapaci di distanziamento; per contro è già stato rilevato come la nuova prodigiosa espansione del capitale multinazionale finisca con il penetrare e colonizzare quelle stesse enclave precapitaliste (la Natura e l’Inconscio) che offrivano all’efficacia della critica punti di appoggio extraterritoriali e archimedici.
Michela Gulia: Le mostre che hai curato al PAV a partire dallo scorso anno – Vegetation as a Political Agent, Grow It Yourself ed ora Earthrise – sono tutte incentrate sul rapporto tra pratiche artistiche e “politiche della natura”. Quest’ultima viene messa in scena come storia e gli elementi vegetali sono presentati come veri e propri attori sociali. Un lavoro di ricognizione che, muovendo dai tardi anni Sessanta e all’interno di uno scenario globale, prende le distanze da quelle immagini che “perseguono una radicale strategia di occultamento”, immagini che hai già definito nei termini di “retorica edenica”. A cosa ti riferisci con questa espressione?
Marco Scotini: Forse potremmo dire che il terreno comune a società e natura è il vero centro delle ricerche (espositive, teoriche, operative) che stiamo conducendo in questi anni al PAV. Perché è necessario per noi ora (e proprio ora) attribuire una storicità e una condizione di socializzazione al cosiddetto mondo vegetale o naturale? Un mondo, per statuto, presunto astorico e apolitico? Questa è una prima domanda che ci siamo posti.
L’altra questione risponde ad un’esigenza di altro tipo, ma strettamente interconnessa alla precedente: e cioè quella di non svincolare queste ricerche da altre che sto seguendo con mostre tipo Il Piedistallo Vuoto, dedicata all’ex Blocco Sovietico, Too Early Too Late, incentrata sul Medio Oriente e Disobedience Archive, sulle forme dell’attivismo contemporaneo su scala planetaria. Non vorrei richiudere queste indagini ulteriori sulla natura della “natura” in un canale specializzato e unilaterale (per quanto ampio questo possa essere) perché il vero problema ecologico oggi (nel senso dell’“ecosofia” guattariana) è quello di riconcatenare ciò che la Modernità ha interrotto, sottratto, separato. Senza però ritornare ad una condizione premoderna ma avanzando verso un cosmos da fare.