Non è semplice, oggi, parlare di lavoro. Nel giro di pochi decenni siamo passati da discorsi e da pratiche politiche che affermavano la sua centralità, a retoriche che proclamano, al contrario, una sua presunta fine. La verità non può stare da un parte né dall’altra. Non ha senso ridurre l’essere umano al solo lavoro. Ma è difficile pensare che del lavoro sia possibile fare a meno, costruendo un altrove in cui vivere liberati dalle sue catene. Dal lavoro l’essere umano deve in qualche modo transitare, perché è una delle principali categorie che gli offre la possibilità di un’inserzione in una dimensione di senso. Il lavoro incardina l’essere umano nella realtà, gli consente di creare un legame sociale, di istituirsi come soggetto e come cittadino all’interno del rapporto con i propri simili. Avere un lavoro significa avere degli obiettivi, avere orari che scandiscono le giornate e la vita, avere diritti e doveri. Significa essere inseriti in una dimensione simbolica, senza la quale una vita non è propriamente umana.
Pubblichiamo un estratto da Crescere nonostante a cura di Stefano Laffi (Edizioni dell’Asino)
È questo, in prima battuta, ciò che cercano i ragazzi e le ragazze che sono oggi alla ricerca di un lavoro. Sono alla ricerca di un senso, di fronte all’imperante insensatezza del mondo in cui si trovano a vivere. Sono alla ricerca di un’identità, di un luogo cui sia possibile appartenere, di relazioni. Ovviamente non è solo il lavoro a offrire al soggetto la possibilità di fare legame, di costruire relazioni, di avere una propria identità. Il lavoro non è tutto, ci sono altre dimensioni della vita umana in cui è possibile costruire le proprie appartenenze. Ma quando il lavoro è assente, oppure presente ma in forme precarie, incerte e mortificanti, il legame con l’altro e con la collettività rischia di essere reciso. La precarietà, prima di tutto, è impossibilità per il soggetto di trarre dal proprio lavoro una dimensione identitaria che lo leghi ai suoi simili in relazioni sociali condivise e dotate di senso (Chicchi, Giorgetti 2012).
Privare un’intera generazione del lavoro, come avviene oggi, significa escluderla dalla vita in comune, dalla cittadinanza. Un giovane che non ha un lavoro rischia di non avere legami e di rinchiudersi in un godimento autistico. Non ha la possibilità di agire una separazione, perché gli mancano le risorse per andare a vivere in un’abitazione diversa da quella della propria famiglia d’origine. Non ha possibilità di mettersi in gioco, gli è negata la possibilità di operare un taglio con la propria infanzia, di volgere lo sguardo verso un altrove. Rischia di essere risucchiato nel famigliare, di non poter prendere parola come uomo, come donna, come cittadino o come cittadina.
I ragazzi e le ragazze che cercano oggi una via d’accesso alla vita adulta si confrontano con l’idea che la strada per la salvezza sia puramente individuale. Il successo dei talent, così come le retoriche sulle start up e l’autoimprenditoria, promettono che da soli ce la si può fare. Che una buona idea, un briciolo di talento, la perseveranza e un pizzico di fortuna sono sufficienti a garantire un futuro di successo. È un inganno che si regge sull’esibizione di qual- che carriera esemplare, le “storie di successo”, e una radicale rimozione. Perché per ogni giovane che si “mette in proprio” per un’avventura imprenditoriale, ce ne sono migliaia inchiodati a posizioni subalterne, sfruttati o mal retribuiti. Per ogni ricercatore italiano che approda in una prestigiosa università statunitense, ci sono migliaia di studenti che lavorano cash in hands nelle fattorie australiane, o come lavapiatti nei bar e nei ristoranti di Londra, Berlino o New York.
La fede nella possibilità di una salvezza individuale sta al centro di quella che è stata recentemente definita “economia politica della promessa” (Bascetta 2015). Disillusi sulla possibilità di costruire un futuro in comune, i ragazzi e le ragazze che si affacciano oggi al mercato del lavoro sono esposti a promesse cui è difficile, in assenza di altre prospettive, non cedere. C’è chi chiede loro lavoro gratuito promettendo in seguito una qualche forma di stabilizzazione, un contratto, un reddito. C’è chi promette opportunità di networking, argomentando che uno stage non retribuito è pur sempre una buona occasione per “farsi conoscere”, e magari incontrare qualcuno cui lasciare un curriculum.
Ci sono le agenzie formative, che promettono tirocini finalizzati alla trasmissione e acquisizione di competenze, ma che in realtà, nella gran parte dei casi, sono una stanca ripetizione di rituali senza senso. C’è chi promette visibilità, facendo leva sul fatto che chi vuole lavorare in università, nel giornalismo o nella comunicazione ha la necessità di “farsi un nome”. Ed è disposto a lavorare o scrivere gratuitamente, pur di avere visibilità su un sito, su un blog, su una pubblicazione. È un meccanismo che fa leva sulla paura dell’anonimato, sul timore di non salire mai sulla ribalta, di vivere la propria vita rimanendo dietro le quinte.
Se l’economia della promessa riesce a catturare le vite di tanti ragazzi e tante ragazze, è perché credere a quelle promesse offre loro un tornaconto in termini identitari. Offre la possibilità di sfuggire all’indeterminatezza, allo sradicamento e all’isolamento delle loro vite. Poter dire che si scrive su un blog o su un giornale, che si collabora con un certo professore universitario, che si lavora per una prestigiosa società, sono tutti elementi che permettono di cementare, sia pur in maniera precaria, un’identità altrimenti dolorosamente frammentata. Ma un’identità di questo tipo è instabile ed è fatalmente destinata a implodere. È pura apparenza, illusione di avere una consistenza sociale. È un cerotto mal posizionato sulla ferita della vita.
Se a questo quadro aggiungiamo la desolante constatazione che nel nostro paese non c’è oramai più alcuno spazio per prendere parola (Giglioli 2015), non sorprende che l’esodo dei giovani italiani abbia assunto le dimensioni attuali. Per decenni le scelte di politica industriale e di politica del lavoro hanno progressivamente deteriorato la qualità della domanda di lavoro e ristretto le opportunità offerte ai giovani nel nostro paese. In alcuni settori, a partire dalla ricerca scientifica avanzata, sostenibile soltanto con forti investimenti finanziari, la superiorità di altri paesi in determinate tecnologie ne fa dei “magneti” che attirano cervelli da tutto il mondo (Banfi, Bologna 2011).
L’attuale gerarchizzazione nella divisione globale del lavoro è l’esito di una dinamica selettiva avviatasi almeno quattro decenni fa, a partire da scelte di politica industriale che hanno fatto retrocedere l’Italia nella serie B dell’economia globale. Non ha senso, oggi, lamentarsi per il declassamento del nostro paese, o avvertire un senso di emergenza e di minaccia per la “fuga dei cervelli”, quando piuttosto si sarebbe dovuto pretendere, negli ultimi decenni, scelte di politica industriale e di politica del lavoro di ben altro tenore.
In questo quadro, prendere e andare all’estero, esercitare il proprio diritto di fuga (Mezzadra 2001), tanto per i knowledge workers quanto per i lavoratori a bassa specializzazione, costituisce spesso l’unica concreta possibilità di riprendere in mano le redini del proprio destino. In alcuni casi le biografie dei giovani che sono partiti parlano di entusiasmo, di avventure nuove e inebrianti, di esperienze sconosciute alle generazioni precedenti e anche a molti coetanei. Ma basta leggere alcune storie dei ragazzi e delle ragazze che hanno scelto di cambiare paese, frequentare uno degli innumerevoli blog in cui raccontano la loro esperienza, per rendersi conto che la fuga non è mai priva di ambivalenza (Cucchiarato 2010). La vita degli expat è fatta anche di fatica, di dubbi, di paure, di dolore. Fa soffrire il fatto di essere lontani da quella che si continua a considerare la propria casa, di non poter contribuire da lavoratori e da cittadini alla vita e al benessere del proprio paese. Il desiderio di separarsi è vitale. Ma soltanto se non interrompe il legame generativo con le proprie origini.
Pubblichiamo un estratto da L’enigma del lavoro di Domenico Letterio contenuto in Crescere nonostante. Un romanzo di formazione a cura di Stefano Laffi (Edizioni dell’Asino)