Un museo, in genere, è come Sanremo: qualsiasi cosa ci si metta, inevitabilmente puzzerà un po’ di vecchio: si percepisce sempre qualcosa di innaturale e scoordinato, in un cortocircuito che non sai mai se sia colpa del contenuto o del contenitore. Tuttavia, c’è Sanremo e Sanremo e museo e museo. Per esempio, in Prati, a Roma, sorge l’unico museo italiano dedicato ai videogiochi, Vigamus. Il direttore Marco Accordi Rickards mette subito le mani avanti: “Apparentemente può sembrare un controsenso: un museo per definizione riporta a qualcosa di vecchio, mentre il videogioco per definizione è ultra contemporaneo”. Queste parole, le prime della nostra intervista, sono una linea che traccia un confine. Da una parte il Museo, pura materializzazione dell’enciclopedia illuminista, prova titanica di ordinare il mondo dell’arte antica – dalle mummie alle pale d’altare, in sale divise per temi – e di rendere la Conoscenza basata sulla Storia alla portata di tutti; dall’altra, i videogiochi, un mondo appunto “ultra contemporaneo”.
Prismo: Marco, a cosa serve un museo dei videogiochi?
Marco Accordi Rickards: Un museo del genere ha due scopi. Primo: il medium videoludico, per quanto giovane, ha ormai una storia che merita di essere raccontata. I primi esperimenti risalgono al 1958, ma ci sono intere generazioni – quelle più appassionate di videogiochi – che mancano completamente di nozioni su come sia nato il medium, nonché sul suo background culturale e sperimentale. Secondo: serve per un’opportuna legittimazione del videogioco, per troppo tempo demonizzato e vituperato. Nel momento in cui viene inserito in un museo, esso afferma il suo status di medium culturale, cioè un mezzo di espressione del pensiero e una forma d’arte. Mentre magari l’arte contemporanea teme l’istituzionalizzazione del museo, questa per il videogioco è molto positiva.
Il museo dei videogiochi, dicevamo, è un’altra cosa. L’arte, per esempio, non ha dovuto lottare per ritrovarsi dentro a un museo che è stato inventato per ospitarla, anzi: il museo d’arte contemporanea ha sviluppato una sorta di ribellione adolescenziale contro il papà Museo e tutta la sua pesante Storia e, per prendere il distacco da questa istituzione, ha cominciato a esporre anche artisti alle prime armi, assomigliando sempre più a una galleria e cercando di scrollarsi di dosso la polvere dei secoli al grido di forever young. Per converso, il museo dei videogiochi sfrutta proprio quell’aura “istituzionale” che l’arte contemporanea rifugge per entrare a gamba tesa nella Storia, cioè in un luogo/concetto per cui ha dovuto (e deve tuttora) lottare e che non intende mettere in discussione.
Ma c’è dell’altro, naturalmente: secondo Accordi Rickards il museo serve anche come “luogo d’identità, come una sorta di ‘casa del videogiocatore’ dove riunirsi per incontri culturali, tavole rotonde e momenti di svago, senza i quali l’appassionato sarebbe completamente privo di una struttura che rifletta la sua identità. Se un tempo c’erano le sale giochi – che però non avevano velleità culturali – dopo il loro crollo cosa è rimasto, al di fuori dei negozi di videogiochi specializzati? È evidente – continua – che questi non possano essere veri punti di ritrovo, ed è in questo senso che il museo svolge anche una funzione di incontro tra intrattenimento e cultura per tutti i videogiocatori e gli appassionati”.