Le aziende che si sono appropriate dello slogan di “economia della condivisione” non amano la redistribuzione del reddito. Ancor meno contribuire attraverso le imposte alle infrastrutture dei paesi nei quali prosperano. Quando si tratta di fiscalità, i nuovi attori del commercio e dei servizi online, come Uber e Airbnb, seguono la strada tracciata dai fratelli maggiori Google, Apple, Facebook, Amazon: quella dell’elusione fiscale. Così come attori più vecchi come eBay o PayPal. Con la complicità di territori come il Lussemburgo, il Delaware o le Bermuda, verso i quali convergono i loro profitti.
Inchiesta dell’Observatoire des multinationales che dedica uno sguardo particolare alle “start up” francesi come Leetchi o vente-privee.com.
Il servizio di noleggio auto con conducente Uber fa molto parlare di sé per i suoi conflitti con i taxi e la giustizia. Il sito di di affitto turistico presso privati Airbnb, dal canto suo, è in contrasto con gli albergatori. Ma, al di là della distorsione della concorrenza che sarebbe generata da queste nuove aziende, sapete dove vanno a finire i soldi che spendete quando prenotate un autista o quando comprate un bene venduto all’asta online? Questi nuovi attori dell’economia della Rete sono meno spesso denunciati per il loro comportamento di fronte alle imposte. Eppure ce ne sarebbe motivo. Come i quattro giganti del digitale (Amazon, Apple, Facebook, Google), queste nuove aziende hanno la brutta tendenza a fare di tutto per non pagare ciò che devono alla collettività.
«I giganti del digitale approfittano, come tutte le aziende multinazionali, delle falle dei sistemi fiscali nazionali e degli accordi bilaterali per praticare un’ottimizzazione fiscale che riduce drasticamente le loro aliquote», fa notare un’analisi sulla fiscalità del digitale del Commissariato generale alla strategia francese. Prima di aggiungere: «Per via del carattere immateriale di larga parte delle loro attività e della difficoltà che hanno i servizi fiscali a definire il territorio interessato dalle operazioni di produzione, riescono a sfruttare queste falle in maniera più consistente rispetto alle industrie “classiche”». È tutto il problema dell’economia della Rete. E i suoi attori ne stanno prendendo pieno vantaggio.
Amazon, per esempio, paga solo lo 0,5% di tasse sul suo fatturato fuori dagli Stati Uniti. La libreria online è oggetto di una inchiesta della Commissione europea per i vantaggi fiscali di cui beneficia grazie all’aver stabilito la sua sede europea in Lussemburgo. E le autorità fiscali francesi gli reclamano 250 milioni di dollari arretrati per il periodo 2006-2010. Procedure simili sono attivate in Germania, Canada, Cina, India, Giappone e Regno Unito! [Verifica il rapporto annuale di Amazon a pagina 69] E gli altri fanno lo stesso. Fuori dagli Stati Uniti, Google paga solo il 2,2% di tasse sul suo fatturato, Facebook l’1,5% e Apple l’1%. Un modello che viene riprodotto dalle nuove star che si sono appropriate dell’espressione “economia della condivisione”.
Con Airbnb i profitti soggiornano in Irlanda e Delaware
Google e Facebook hanno la loro sede europea in Irlanda. Il paese è di certo uno dei più indulgenti dell’Unione europea in materia di protezione dei dati personali. Ma offre un altro grande vantaggio: un tasso d’imposta per le imprese del 12,5%, mentre in Francia è del 33%. Airbnb li ha imitati. Il servizio di affitti turistici presso privati, che rivendica 40 milioni di utilizzatori, ha optato anche lui per Dublino come sede europea.
Come indicano le condizioni generali d’uso, tutti i contratti al di fuori degli Stati Uniti sono stipulati con l’azienda irlandese, anche se Airbnb ha una filiale in Francia, registrata a Parigi, e una in Germania, registrata a Berlino. Questo by-pass fiscale non si ferma qui. Airbnb dispone anche dal 2013 di tre filiali a Jersey (Airbnb Limited 1 e 2 e Airbnb International Holding), la piccola isola della Manica che è stata fino al 2014 nella lista dei paradisi fiscali del ministero francese delle finanze.