– Mi tocca condividere anche questa, – dico alla mia compagna guardando attraverso la luce dei tre pollici e mezzo che incorniciano il telefonino. L’animazione Gif (Graphics Interchange Format) mostra un omino tipo Lode Runner che si alza da un letto – sulla destra – per sedersi davanti a un computer – sulla sinistra – e lavorare nel cono luminoso dello schermo battendo sui tasti fino al tempo di rialzarsi e sdraiarsi di nuovo sul letto dal quale poi torna ad alzarsi per raggiungere la sedia e così via, in un loop senza salti, filante, continuo, mentre sulla parete tra la scrivania e il materasso le lancette di un orologio corrono a spiegare che altro tempo non c’è, che se l’ellissi permette di non rappresentare almeno anche i pasti, al di là della sintesi cui è costretta un’animazione Gif, è perché i pasti quell’omino spesso li si consuma accanto alla stessa tastiera del portatile, e allora va bene così, allora via.
– Mi tocca condividere anche questa, – perché l’altro giorno mi è toccato condividere un articolo come sempre geniale e bastardo di Lercio (firmato Riccardo Pongetti): «Dipendente presso sé stesso pubblica su Facebook le foto della cena aziendale», con la foto di un ragazzo chino sul tavolo di un fastfood, o qualcosa del genere, ma comunque deserto, con le altre sedie tutte ordinate, con dentro, solo, quel ragazzo, che mangia e non si è nemmeno tolto la giacca.
– Mi tocca condividere anche questa, – e l’ironia non ci manca, a noi che abbiamo scelto di lavorare con le mani una cosa che non si può toccare, questa cosa qui, questa cosa che non si può toccare ed è la lingua, sono le parole.
L’ironia non ci manca ed è sicuro: lo capisco un’altra volta quando, dopo aver condiviso l’omino che fa la spola tra il letto e il computer, un mio «collega», quello che ha pubblicato su Facebook la Gif, insieme al quale non ho mai veramente lavorato, mi propone per il sito della sua associazione di scrivere gratis un articolo sul tema «giornalismo culturale oggi» dal titolo «Perché scrivo gratis?».
Ecco. Perché scrivo gratis? O, in versione espansa: perché scrivo per lavoro, nonostante debba farlo gratis? O, tolti gli impliciti: perché scrivo per vari committenti che, grazie ai contenuti realizzati da me e da altri come me (idealisti? romantici? idioti?), sopravvivono e incassano, tanto o poco che sia, vendendo copie, riscuotendo guadagni da annunci e banner pubblicitari, ma sono cattivi com-pagni, ovvero non amano condividere la pagnotta? Perché non ho imparato niente da Robin Hood? Perché do ai ricchi l’elemosina? Mi faccio la domanda e mi do una risposta. Anzi, più risposte.
Anzi, siccome non ho una risposta, provo a elencare tutti i luoghi comuni, non tutti per forza inautentici, che si danno di solito in pasto alla domanda. Uno: perché mi piace. Due: perché non so fare altro. Tre: perché non posso farne a meno. Quattro: perché mi rende felice. Cinque: perché solo scrivendo riesco davvero a capire quello che penso. Sei: perché è il sacro fuoco della Letteratura che me lo chiede. Sette: perché in fondo scrivo per me stesso e posso farmi il favore. Otto: per ottenere visibilità, sacrificarmi oggi per diventare ricco e famoso domani. Sono tutti casi reali, non difficili da riscontrare.
Bazzicate un po’ su Facebook, infiltratevi nello struggente club degli umanisti afferenti ognuno a suo modo al giornalismo culturale e all’editoria, quella sorta di totalizzante spazio co-coworking digitale, nonché sfiatatoio delle frustrazioni e insieme area ludica dove parcheggiare la mente tra un lavoro pagato tardi e male e un lavoro non pagato; mimetizzatevi tra gli attori di quell’umanità dolente, scegliete il giusto emoticon che risponda ad affermazioni del tipo «cavoli, certo che tu hai dei bei contatti», o «ue, ti, temo di essermi fatto dei nemici a Roma, mi capisci? vuoi leggere il mio romanzo?», o «scrivo perché non sono io a scrivere, è una voce, è la scrittura che si scrive attraverso di me, io sono solo un umile servo dell’arte narrativa».
Altrettanto di solito, però, la risposta alla domanda – perché scrivo gratis? – è più semplice. Nove: perché non mi pagano.
– Ci sono riviste che non pagano? – mi chiedeva sinceramente incredula una giornalista presso un importante quotidiano nazionale nel corso di una conversazione sulla sua bacheca di Facebook nata da un caso editorial-mediatico in cui un editore falliva e andava a dirigere un periodico ganzissimo senza finire di pagare i suoi ex collaboratori. – Davvero ci sono riviste che non pagano? – faceva eco un’altra giornalista amica della prima giornalista. – Me lo domandate sul serio? – provavo a capire io.
«Sinceramente incredula» ho scritto, ma ci sono arrivato dopo: allora non capivo se le giornaliste c’erano o ci facevano. Feci un breve elenco di riviste per cui scrivevo e che non pagavano. Loro: – Ah, «Blabla Blablabla»? Ma davvero? Ma non la pubblica mica Blablabliblabla? – E anche il «Blabla dei blabla del blabla»? – E «Blablabla»?! Assurdo, eppure esce per Blibli edizioni… –
Sì. E lo riporto, perché oso pensare – oso – che il mio caso sia abbastanza – abbastanza – rappresentativo. Esclusi i lavori editoriali – sempre mal pagati, spesso pagati con ritardi mostruosi (vedi qui) – ed escluso il «Corrierone», come ho imparato a chiamarlo nel lontano anno e mezzo passato dentro il suo ufficio Assistenti di redazione, ed esclusi il sito di un premio italo-russo, un settimanale a forma di quotidiano e un sito di recensioni curato dagli scrittori Alessandro Bertante e Massimo Gardella poi chiuso, nessuna testata, nessun blog, nessuna rivista cartacea o online ha pagato una sola parola da me spesa per loro.
Non è una questione di vittimismo: nessuno tra i non paganti prometteva e promette nulla, ma è comunque una questione seria su cui interrogarsi. È una questione che riguarda, lo spiega con chiarezza sconvolgente Byung-Chul Han in La società della stanchezza (Nottetempo, 2012), un «nuovo tipo umano, che è inerme in balia dell’eccesso di positività […] quell’“animal laborans” che sfrutta se stesso del tutto volontariamente, senza costrizioni esterne. Egli è al tempo stesso vittima e carnefice».
Dall’altro verso, sempre su Facebook ho incontrato un tipo che ha risposto con una domanda a un mio sfogo per l’attesa lunga un anno di un pagamento che, causa liquidazione della società editrice della tal testata, sarebbe stato pure dimezzato. La sua domanda è stata: – Pagano pure? Non capisco. Oltre a pubblicarvi, pagano anche? –
Allora, chiudendo con questo esempio, sorridendo davanti a questo mondo ridicolo, incomprensibile e non meno ostile, mi rifaccio la domanda. Perché scrivo gratis? Perché, a fronte della condizione che ha ben descritto Christian Raimo qui, anche se gratis, nonostante tutto, intanto scrivo? Per ognuno dei luoghi comuni che ho scritto (appunto) sopra. E perché sono un inguaribile ottimista, ecco perché scrivo. Ma non preoccupatevi. E non ridete. Stavolta è per davvero: l’anno prossimo, prometto, metto la testa a posto. Continuo a scrivere, e magari scriverò meglio, però intanto cambio lavoro. Se doveste cercarmi, mi trovate nel mondo.