Dopo due mesi luminosi e intensi, sarà un evento dedicato alla musica sperimentale internazionale, animato da Sascha Funke, Rex the Dog e il collettivo Bamboo, a chiudere nella notte del 28 novembre le porte di Here, now, sesta edizione dell’Outdoor Festival, curato da Antonella Di Lullo. Siamo in un luogo straordinario, che di per sé vale almeno una visita: il complesso architettonico in disuso dell’Ex Caserma di Servizio alla Reale Casa d’Armi Guido Reni, al Flaminio di Roma, di fronte al MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo.
L’area ospitante, di proprietà di CDP Investimenti, si sviluppa per oltre 70.000 mq di superficie, tra padiglioni e spazi aperti. Superficie che, secondo il programma stabilito dall’Amministrazione Marino, dovrebbe ospitare la Città della Scienza, un vero e proprio nuovo quartiere che prevedrà abitazioni, aree commerciali, giardini e luoghi di incontro.
Nonostante un concorso internazionale abbia affidato il progetto allo studio milanese di Paola Viganò, al momento non sappiamo come andrà a finire, viste le ultime vicende capitoline. Ma l’Outdoor ha scelto questo palcoscenico per le azioni di 17 street artist internazionali provenienti da 8 paesi diversi, a cui sono stati assegnati altrettanti Padiglioni nazionali, proprio per iniziare a testare la zona come futuro spazio di aggregazione.
Una piazza di incontro per tutti i cittadini, dagli amanti degli eventi culturali alle numerose famiglie che abitano la zona. Lo ha fatto con la street art, certamente, ma anche grazie a un programma di eventi molto vario tra performance musicali, conferenze e dibattiti, cinema e laboratori per bambini, che ha permesso di raggiungere più di 20.000 ingressi paganti distribuiti nei week-end di apertura, con una media di 900 visitatori al giorno. Ossia vicini a quelli che registra il MAXXI, ma di gran lunga superiori a quelli della maggior parte dei musei della città.
A pochi giorni dalla chiusura, abbiamo incontrato Francesco Dobrovich, classe 1980, che con la sua agenzia Nu Factory nel 2010 ha fondato il Festival e ne ha seguito la direzione artistica, svolgendo un’attività pionieristica di riqualificazione urbana attraverso la street art. Un’agenzia di comunicazione atipica la sua, aperta a larghi orizzonti e disegnata dalla necessità di trasformare lo spazio urbano, per offrirgli una visione cosmopolita e in costante evoluzione.
Partiamo da NuFactory, raccontami cos’è?
Ho fondato NuFactory nel 2006 con Alessandro Orfeo, mio amico di sempre. L’idea era quella di dare vita a un’agenzia di comunicazione e produzione culturale, perché abbiamo sempre creduto nell’utilizzo della cultura e della creatività come elemento di distinguo sul mercato della comunicazione. Eravamo giovani e senza esperienza. Solo nel 2010 ci siamo strutturati diventando una vera e propria agenzia di marketing e branding per aziende come Eni, Red Bull, Ceres, alcune presenti anche all’Outdoor Festival come partner.
Come nasce l’Outdoor Festival e come si inserisce nella vostra attività?
Outdoor è nato nel momento in cui abbiamo sviluppato la società. Lo abbiamo sempre visto come un progetto di comunicazione e di city branding non molto distante dal lavoro di comunicazione pura rivolto a un cliente o a un brand specifico. Un progetto per Roma.
Che intendi per city branding?
Agiamo sull’immagine della città per offrirle una connotazione nuova in un ambito che non le è prettamente riconducibile. Roma è vista come una città classica, con un turismo altrettanto classico. Noi vogliamo inserirla, grazie anche alla collaborazione con le Ambasciate e la rete dei nostri partner, all’interno di un processo comunicativo e culturale internazionale da cui la capitale è lontana da troppo tempo.
E mi sembra che abbiamo avuto ragione. Il riscontro internazionale è evidente, anche a livello mediatico, penso ad esempio all’attenzione del New York Times e del Time di Londra. O ancora alla TV nazionale cinese che lo scorso anno ha prodotto un servizio che è stato visualizzato 6 milioni di volte in dodici ore! Un fatto sensazionale.
Cambiare il modo in cui è percepita la città. A distanza di 6 anni e altrettante edizioni credete di esserci riusciti?
Ricordo la presentazione alle istituzioni e ai potenziali partner della prima edizione di Outdoor, nel 2009/2010. L’idea che proponevamo era quella di trasformare il quartiere Ostiense in un polo di attrazione turistica. Eravamo convinti che, se si fosse lavorato per diversi anni su quella zona, concentrandovi tutti gli interventi di street art istituzionalizzata, l’area, nel giro di poco, si sarebbe trasformata in un fulcro di richiamo turistico. In 4 anni, abbiamo realizzato 14 opere di street art su altrettanti edifici, un numero incredibile per quei tempi. Oggi a Ostiense si organizzano visite guidate, la zona è inclusa nei pacchetti turistici per la ‘Roma Alternativa’, esiste un’App che parte dal quartiere e un’altra creata specificatamente per tutta la zona.
Quali sono i vostri riferimenti a livello internazionale?
Fra i primi a ispirarci, soprattutto quando lavoravamo sul tessuto urbano a cielo aperto, è stato il Festival Nuart di Stavangher in Norvegia di cui oggi siamo partner e con cui, da due anni, abbiamo dato vita a un interessante scambio di idee e programmi. Il rapporto con Martin Reed, per esempio, curatore del padiglione norvegese nella corrente edizione del nostro Festival, nasce da questa collaborazione.
Per quanto riguarda i progetti incentrati sulla variazione urbanistica della città e sul recupero e la riconversione delle strutture, abbiamo guardato agli Ex Magazzini di Stoccaggio di Winwood a Miami (dove si tiene Art Basel da più di dieci anni), alla Tour13 di Parigi nel 13° Arrondissement e all’operazione svolta lì della Galleria Itinerance. Non va tralasciato, inoltre, l’esempio italiano del Bunker di Torino, valido modello di sinergia tra soggetti privati per la gestione temporanea di spazi in chiave culturale. Tutte realtà che, come la nostra, hanno dato vita a interventi pionieristici e che devono portarsi sempre più avanti per restare sul mercato e non affogare nel mare di una concorrenza sempre crescente.
E un grande passo avanti, voi lo avete mosso lo scorso anno quando avete cambiato prospettiva, lasciando le facciate per intervenire all’interno di complessi architettonici in via di riconversione. Non a caso l’edizione di Outdoor 2014 si chiamava Moving Forward e si apriva a nuove strategie.
Non dimenticare che noi siamo soprattutto imprenditori, quindi è vitale cercare sempre nuove soluzioni, soprattutto se ci troviamo ad affrontare una scena in così rapida evoluzione. Con Moving Forward, più che un titolo, uno slogan, abbiamo voluto lanciare una sfida per offrire una risposta diversa alla città. Ormai il palcoscenico era colmo di attori e, questi attori, erano tutti quanti in piazza. L’unico modo per restare sulla cresta dell’onda è cavalcarla e, a volte, anticiparla. Come fai a restare in piedi in un centro che non premia neanche il tuo esser stato first moover? Continuando ad esserlo!
I vostri partner e sostenitori sono anche le istituzioni che vi seguono da anni. Istituzionalizzare un fenomeno originariamente spontaneo e di dissenso come la street art non può essere rischioso? Come sta cambiando la scena internazionale in questo senso?
La street art a cui pensi tu non esiste più, perlomeno nei paesi occidentali. Solo partendo da questo presupposto, si può comprendere la natura e la sostanza della nostra azione. In Italia nessuno scenderà più di casa per inseguire un ragazzo che sta dipingendo una serranda. Al contrario, si fermerà, farà una foto per poi condividerla sui social con il commento: “I love street art”. Dello spirito dei tempi passati non è rimasto nulla. Gli artisti contemporanei cercano e hanno un grandissimo feeling con il pubblico e sono lontani da complicate sovrastrutture intellettuali e concettuali. Come si può pensare di collocare un giovane artista che trova un campo così spianato nello stesso panorama di chi invece ha rischiato la galera per anni o è stato sommerso da denunce? I tempi sono maturi per offrire nuovi stimoli agli artisti, avvicinandoli a scenari che, forse, sono più vicini a quelli dell’arte contemporanea ma si rivolgono ad un pubblico molto più ampio ed eterogeno anche grazie a una comunicazione pop degli eventi.
Durante la conferenza stampa, hai detto che uno degli obiettivi dell’edizione 2015 era coinvolgere tutte le fasce di pubblico. Anche per questo avete scelto orari di apertura molto dilatati e ideato un programma con un’offerta eterogenea: dai concerti serali alle iniziative per le famiglie. E poi lo slogan è Here, now con un evidente richiamo alla partecipazione diretta. Ha funzionato?
Preferirei tirare le somme solo quando sarà tutto finito ma come sai la partecipazione è stata straordinaria, con numeri importanti. Il pubblico di questa edizione è forse tra i più attenti che ci sono in città: 6 anni di MAXXI hanno, senza dubbio, aiutato le persone a comprendere, partecipare e amare questo genere di iniziative. Inoltre abbiamo lavorato su un’area che presto sarà oggetto di una grande trasformazione, per creare un nuovo quadrante urbano. Quando parlo della necessità di fare city branding e comunicazione mi riferisco, senza dubbio, anche alla necessità di rendere più umana la riconversione in atto. Il Festival non ha certo il potere di renderla attuativa o attuabile, ma più ‘umana’ sicuramente sì.
Secondo voi, perché le istituzioni hanno sostenuto e reso possibile questo progetto? Cosa ha destato il loro interesse?
Da un lato, abbiamo avuto la fortuna di interagire con soggetti con una visione e soprattutto con la voglia di cambiare l’immagine e le dinamiche della città. Questa istanza di cambiamento ha le sua fondamenta nella volontà di svelare proiezioni e ambizioni senza alcuna paura. Se avessimo avuto interlocutori con la necessità di nascondere o ignorare il processo di trasformazione, tutto questo non sarebbe potuto succedere. Quando esiste un’apertura di questo tipo, significa che c’è molto da dire.
Se pensi ai nostri primi 14 interventi nel quartiere Ostiense, sono tutti stati realizzati senza il supporto di alcuna istituzione ma solo con un ristretto sostegno municipale oltre a quello della presidenza Zingaretti che, già da allora, credette nel nostro progetto. Oggi, invece, mi siedo a tavoli in cui gli interlocutori istituzionali e privati sono aperti, disponibili e pronti all’ascolto. Le ragioni risiedono, da un lato, nel fatto che siamo cresciuti e abbiamo acquisito credibilità lavorando anche in contesti difficili, dall’altro, nella presenza di soggetti istituzionali dialoganti e dotati di una visione profondamente simile alla nostra.
A livello finanziario, quanto incidono le istituzioni nazionali e internazionali, quanto i privati e quanto il pubblico pagante?
Il finanziamento pubblico italiano incide intorno al 10% sul totale: senza entrare nello specifico, posso dire che si tratta di una cifra piuttosto considerevole. Le istituzioni internazionali, invece, quest’anno come lo scorso, hanno fornito un contributo pari al 7/8 % del totale, attraverso la produzione delle opere di alcuni Padiglioni. I partner privati, infine, coprono il 40/50 % della spesa.
Noi stessi, inoltre, investiamo sul progetto una parte del nostro capitale, proporzionalmente al riscontro di pubblico che ci aspettiamo, cercando così di garantirci una copertura adeguata. Lo scorso anno, con i soli ingressi dei paganti, abbiamo raggiunto la copertura del 50% dell’investimento totale.
Il Festival funziona per diverse ragioni. Innanzitutto, perché è un progetto che ci piace, ci dona grande visibilità, ci consente di aumentare le nostre relazioni e poi, senza dubbio, perché economicamente sta in piedi.
Visto che siete sempre proiettati verso il futuro, perché non ci date qualche anticipazione sulla prossima edizione del Festival?
È ancora troppo presto. Posso dirti che ci piacerebbe iniziare a lavorare su scala nazionale. Ma ancora non so come né quando. Quindi… seguiteci!