Negli ultimi tre anni sono stati moltissimi i bandi creati in Italia da soggetti pubblici e privati per stimolare nuove forme possibili di economia culturale, e la risposta da parte della società, in particolare dai giovani, è stata impressionante: almeno cinquemila proposte progettuali sono arrivate sui tavoli dei promotori, un patrimonio immenso di creatività e di spinta all’innovazione che non può lasciare indifferenti. È ancora da realizzare un’analisi approfondita di queste proposte, ma nell’insieme rappresentano un panorama ricco e variegato dei possibili modi di intendere il ruolo e le potenzialità della cultura; una varietà che impone riflessioni attente sulle possibili strade per l’innovazione del mondo culturale, delle sue economie, delle sue relazioni con il tessuto sociale e delle stesse interpretazioni del concetto di patrimonio e bene culturale.
In questa varietà, anche se in modo poco più che impressionistico, si rintracciano delle costanti, organizzabili in alcuni cluster che forniscono spunti interessanti per comprendere il fenomeno nel suo complesso e le potenziali implicazioni.
Un primo cluster è proprio quello definito dalle esperienze qui narrate: progetti e imprese che mettono in relazione il patrimonio e il capitale sociale in una logica di sviluppo di comunità: progetti di innovazione culturale a forte vocazione sociale, alla ricerca di una sostenibilità sociale non meno che economica, che intendono il patrimonio in modo processuale più che sostanziale, non tanto o non solo come valore in sé, ma come potente strumento – economico e simbolico – per rispondere ai bisogni delle comunità, con un forte legame con il territorio.
Un secondo cluster molto interessante è quello dei progetti che tentano di innovare i processi di produzione e fruizione culturale in una logica di filiera (integrabile sia verticalmente sia orizzontalmente): un progetto come Lìberos, vincitore della prima edizione del premio cheFare, ne è un esempio tipico. Le operazioni di questo tipo tendono a scardinare un sistema di produzione e fruizione (una filiera, appunto) in una logica reticolare, mettendo in relazione chi produce contenuti con chi li media, li commercializza e li utilizza. Si realizza un processo che attrae e organizza le relazioni degli individui condensandole attorno ad un oggetto culturale di interesse comune (nel caso di Lìberos, i libri e la lettura, dunque un medium e non dei contenuti specifici).
In questo modo si condensa una comunità di persone assolutamente trasversali dal punto di vista sociale e potenzialmente anche disperse dal punto di vista geografico. Un’operazione che non sarebbe stata possibile anche solo dieci anni fa, prima che la tecnologia social permettesse queste forme di aggregazione temporanea di scopo in un contesto di ridimensionamento del welfare e moltiplicazione dei bisogni sociali tra sussidiarietà e filamenti di nuove pratiche di mutualismo.
Un terzo gruppo di progetti si colloca nel campo non nuovo ma certamente diversamente inteso delle reti e delle economie di integrazione. In generale, si tratta di progetti che puntano su innovazioni organizzative e di processo orientate a rafforzare il capitale relazionale organizzativo, intendendo l’insieme di tutte le relazioni espresse dall’organizzazione con persone, gruppi e strutture in modo diretto e indiretto.
Anche in questo caso si tratta di un tipo di innovazione resa possibile principalmente dai media digitali, che tende ad aggregare reti e risorse professionali legate al mondo della cultura e della creatività e metterle in comunicazione diretta con la domanda, per creare un ecosistema di relazioni anche economiche attorno a comunità di interessi, con l’obiettivo di una maggiore sostenibilità economica. Spesso si tratta della realizzazione di collettori e connettori di esperienze, risorse e progettualità online e offline.
La frammentazione dei mercati, l’isolamento e il gap di riconoscibilità di figure professionali come quelle culturali e creative – che hanno trovato pochi spazi di rappresentanza e di rappresentazione – stimolano, infine, la richiesta di piattaforme pensate per garantire economie di scala, di competenza e di visibilità, per facilitare il reperimento di know-how specializzato o più semplicemente per favorire ambienti predisposti alla generazione di legami e relazioni potenziali.
Un quarto cluster interessante per le implicazioni potenziali sulle istituzioni e le organizzazioni culturali tradizionali, è rappresentato dai progetti di arte nomade o di outreach che tendono a portare offerta culturale in territori normalmente esclusi da questo genere di proposte, uscendo dalle mura dei luoghi di cultura – teatri, musei, biblioteche – per raggiungere comunità disperse o marginali.
Si tratta di progetti e azioni su scala piuttosto ridotta che contano sull’appoggio e il coinvolgimento delle comunità e rappresentano un approccio in via di diffusione che sarebbe interessante mettere in connessione con istituzioni culturali “tradizionali”: cinema e teatri nomadi, progetti di animazione territoriale itinerante come quello dell’esperienza di Balacaval, rappresentazioni on demand in contesti eccentrici che si basano sulla possibilità di abbattere i rischi economici grazie a pubblici dispersi che possono riconoscersi come domanda e auto-organizzarsi come committenti attraverso Internet.
Ci sono, inoltre, progetti che, sempre in una logica di outreach, puntano alla riqualificazione e rigenerazione urbana attraverso la creazione di un legame diretto con gli artisti, chiamati a interagire con gli abitanti e a creare con loro un legame attraverso la creazione artistica. Festival nelle periferie, opere collettive per l’abbellimento e la reinterpretazione dei luoghi, interventi di arte pubblica partecipati con i quartieri e le comunità, rivitalizzazione temporanee e creative di aree in disuso e altre operazioni che hanno una dimensione sociale piuttosto forte, ma che sovente non si pongono in una logica di continuità, e risultano fragili dal punto di vista della sostenibilità nel momento in cui non riescono a costruire e sedimentare economie virtuose e valore sociale attorno a una comunità o a un territorio specifico (come avviene, invece, nel caso ormai piuttosto noto ed eclatante di Farm Cultural Park a Favara vicino ad Agrigento).
Infine, c’è un cluster più ampio e differenziato riferibile a progetti maggiormente caratterizzati sul fronte dell’intenzione imprenditoriale e che più naturalmente rientrano negli “idealtipi” delle potenziali start up. Sono progetti più facilmente replicabili e scalabili, che si focalizzano principalmente su come l’innovazione incrementale o radicale a elevata intensità tecno- logica possa generare e stimolare domanda di cultura e nuove modalità di fruizione culturale. Piattaforme digitali tematiche, aggregatori di comunità, applicazioni informatiche mobili, storytelling cross-mediale, Realtà Aumentata rappresentano alcune delle numerose potenzialità dell’emporio digitale sviluppate in una logica possibilmente social e pensate per scardinare le regole canoniche di fruizione, di mediazione, di partecipazione e di consumo culturale.
Non si può, infine, non menzionare quei progetti volti a migliorare, attraverso le tecnologie, le condizioni di accesso e di partecipazione ai prodotti e alle esperienze culturali indirizzate a target speciali e a pubblici diversamente abili. Dispositivi per non udenti (come l’esempio dei Google Glass sviluppati dal Museo Egizio di Torino) e per non vedenti e ipovedenti (come l’applicativo Tooteko progettato per integrare tatto e udito nella comprensione di contenuti artistici e culturali) rappresentano due casi emblematici.
Non si può ignorare, vedendo questi fermenti nel loro insieme, come stia emergendo una mappa, una geografia e una genia di attori fortemente intenzionati a trasformare il campo della produzione culturale, attraverso la proposta di nuove forme di progettazione, implementazione e distribuzione di servizi, prodotti ed esperienze culturali. Ciò che li accomuna in maniera più significativa è il tentativo di mettere in connessione la produzione culturale con le persone, le comunità, uscendo dai recinti dell’approccio strettamente sostanzialista per riconoscere un ruolo attivo e strumentale della cultura all’interno della società.
Gli approcci possibili all’innovazione in campo culturale che si leggono in questi progetti provengono da mondi e tradizioni diverse: da quelli dell’impegno sociale, dell’imprenditorialità “startappara” e – più raramente – da quelli del mondo della produzione culturale in senso tradizionale. Tutti si nutrono della nuova grammatica delle relazioni resa possibile dalle tecnologie e da un crescente bisogno di cittadinanza e di ricostruzione del senso civico, tutti proliferano dove il terreno sociale è più fertile e sollecitabile, pur con storie diverse perché diverse sono le relazioni e gli ingaggi possibili con il patrimonio culturale.
Da quanto risulta sinora, emergono due principali “famiglie” di nuove progettualità, che si definiscono in base al diverso peso che danno ai tre elementi che ne costituiscono gli ingredienti essenziali: fatto culturale per sé, impatto sociale, sostenibilità economica.
Da un lato abbiamo gli approcci più orientati a generare un impatto sociale, che tendono a cambiare le regole della produzione culturale stimolando relazioni a forte densità di scambio tra patrimonio e persone, e tra persone e persone attraverso il patrimonio, enfatizzando comportamenti cooperativi, modalità inclusive, in una logica di radicamento territoriale. È su questo terreno, e non è un caso, che il Sud esprime le visioni più ricche e stimolanti. Come risposta a un sistema di infrastrutturazione e di welfare pubblico a presidio delle diverse istanze socio-culturali più rarefatto e discontinuo, e come possibilità di dare un senso e una forma contemporanea a pratiche, antropologie e attitudini antiche, profonde e ancora molto presenti nel Meridione.
La progettazione culturale può, cioè, sperimentare modelli di sostenibilità socio-economica che si innestano sui principi della sharing economy (e del knowledge sharing) e che, qui, però, consentono di fare “reagire” i fattori identitari e comportamentali con il potenziale capacitativo abilitato dalla cultura digitale, che la crisi ha fatto detonare. Vicinato e peer-to-peer, comunità e community, colletta e crowdfunding rappresentano, forse, più che un gioco di specchi, uno “scarto” semantico in cui è iscritta la possibilità concreta di amplificare la portata sociale e di mettere a valore una ritrovata dimensione umana del fare quotidiano.
Dall’altra parte, si riscontra invece un approccio più imprenditoriale e legato agli sviluppi tecnologici, che pone l’accento sulla sostenibilità economica, sulla possibilità di generare valore aggiunto e nuova professionalizzazione, nel breve e medio periodo.
Abbiamo qui le tante start up e proposte di prodotti e servizi che prestano maggior attenzione alle caratteristiche, ai bisogni e agli interessi dei destinatari, promuovendo nuove forme di fruizione, di comunicazione e di esperienza. Dalle applicazioni mobile all’utilizzo degli open data, dalla digitalizzazione delle collezioni alla incentivazione di un dialogo attorno ai contenuti culturali per opera dei destinatari, dal marketing esperienziale alla gamification, i casi sono innumerevoli e in costante crescita.
Questo grazie anche a una più spontanea adesione da parte delle istituzioni culturali tradizionali che vedono in essi una nuova opportunità di sostenibilità – o di miglioramento del sistema di offerta a costi anche contenuti – e che per essere assunti come novità non implicano la lunga e complessa strada dell’innovazione radicale che in qualche modo viene sollecitata da processi che coinvolgono maggiormente le persone non solo come destinatari ma come parti in causa del sistema di produzione culturale.
Estratto da Sud innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale e nuova cittadinanza (FrancoAngeli, 2015) a cura di Stefano Consiglio e Agostino Riitano