“Non” è l’avverbio che, posto davanti a frasi o parole, ne capovolge il significato o perlomeno lo nega o esclude. L’etichetta dei tre tizi qua sopra, Angel-Ho, Chino Amobi e Nkisi, è una non-etichetta, non solo perché si chiama NON Records, ma perché rappresenta una piattaforma di scambio trasversale tra artisti ostili alle dinamiche corrotte di ogni forma di sovrastruttura globalizzata, che quindi non interagiscono attivamente con il mercato ma piuttosto danno voce a fette di società per troppo tempo rimaste mute. Per farlo, però, si sono dovuti scrollare di dosso tanti stigmi, a partire dal concetto in sé di definizione.
Iniziatori e destinatari di questo processo sono interscambiali, e la loro rivoluzione consiste nell’aver scelto una forma di dialogo che non tiene conto di niente di quello che l’industria musicale si è invece sempre affrettata a manipolare, in ogni parte del mondo. Qualsiasi corredo multiculturale riferito alla sola società di riferimento, cioè quella occidentale, ha il difetto di essere consciamente o inconsciamente vincolato alla determinazione della stessa. Se qualcuno in questo ambiente ha bisogno di una boccata d’aria, ad esempio, trova solo tapparelle chiuse. L’ossigeno che manca in scenari del genere è la piena consapevolezza che spazi interdimensionali, incuranti della materia che li costituisce, esistono e la loro visione non è esclusiva ma inclusiva.
NON Records se ne sta in quell’intercapedine che in realtà è un anti-territorio fatto di individualità apolidi, intenzionate a rappresentare un’alternativa concreta ai canoni contemporanei di cui sopra. Ho parlato con Chino Amobi, uno dei tre fondatori, di come l’Africa sia per lui/loro il punto di partenza per la redistribuzione del potere a un popolo da troppo tempo e in troppi modi mortificato, del ruolo autodeterminante di NON in ogni sua espressione etica ed estetica, e del sogno dell’unificazione africana in risposta alla mercificazione capitalista delle sue diversità.
Dove ti trovi?
Sono a Richmond, in Virginia, a tipo due ore da Washington DC, però sono nato nel sud, in Alabama. Mio babbo ha fatto il college là. Poi però ci siamo spostati qui perché ha cominciato a insegnare all’università. Entrambi i miei genitori sono nigeriani.
Quanto spesso ci vai?
Non così spesso come vorrei. Dovrei tornarci il prossimo inverno. È bellissimo là, c’è sempre questa dicotomia tra la meraviglia dell’avere a che fare con uno dei popoli più calorosi mai conosciuti in vita mia, e lo schifo della corruzione statale che affossa l’economia e la qualità della vita in generale. Soldi sporchi che girano, mafie… è peso.
Più o meno la stessa cosa che succede qui, o in Perù—ho origini peruviane. Ci sono stata tre volte in tutta la mia vita, l’ultima delle quali undici anni fa, sarei curiosissima di vedere com’è cambiato il paese oggi.
Ci sono stato cinque volte in totale, ogni sei anni circa. Sì immagino sia più o meno la stessa cosa anche in Perù. Fico però, dovresti tornarci.