Due anni fa parlavo con una mia collega russa di vacanze. Olga mi raccontava di un viaggio fatto qualche tempo prima in Grecia con il fidanzato. Nonostante i due abbiano tutte le abilità per viaggiare da soli, vi si erano recati tramite tour operator. Mi diceva, leggermente infastidita, che una delle escursioni organizzate era consistita nella visita ad un grande negozio di pellicce. Senza via di fuga. La cosa non mi stupisce: d’altro canto, in maniera in qualche modo analoga, nel giorno di visita di Parigi, turisti indonesiani, cinesi, russi e coreani al loro Grand Tour d’Europa (10 paesi in 12 giorni) sono portati a visitare la Tour Eiffel, Notre-Dame e poi, per qualche ora, le Galeries Lafayette. Ai dissidenti non resta che trascorrere del tempo seduti sulla scalinata sul retro del celebre grande magazzino, di fronte alla vista di una via trafficata impedita soltanto dall’arrivo continuo di pullman gran turismo. In effetti Parigi è anche questo.
Mano a mano che (una parte de)i consumatori del nord globale reagivano, almeno apparentemente, all’assuefazione da società dei consumi, sbizzarrendosi a trovare modi sempre più originali, creativi, sostenibili per non rinunciare alle merci (e lavandosi la coscienza dal peccato che il consumo sembra comportare), tour operator, società di marketing e consulenza, operatori del commercio transnazionale, hanno contribuito significativamente a crearne un alter ego: il “turista BRIC” (o BRICS, o BRIICS, o…), “consumista” e “power spender”.
Un processo di definizione di un Altro diverso, iscritto nelle rappresentazioni e nei discorsi, e trasmesso attraverso una serie eterogenea di pratiche. A “noi” come a “loro”, in un sistema ancora radicalmente capitalista, per quanto con molte versioni, accezioni e interstizi di evasione, è chiesto nel quotidiano di continuare a rielaborare la capacità di capire e dare un valore (economico, culturale, sociale) a oggetti, servizi ed esperienze che costituiscono il supporto delle relazioni e delle interazioni.
Shopping e turismo sono pratiche storicamente e istituzionalmente situate, e cioè negoziate passo a passo nel corso delle azioni e del loro svilupparsi in un contesto determinato socio-culturalmente. Insieme delimitano un ambito di consumo che influenza tanto la soggettività di ciascuno di noi quanto i paesaggi nei quali quotidianamente ci muoviamo.
Rimini è un caso interessante da analizzare da questo punto di vista. Gli immaginari del luogo sono indissolubilmente legati al turismo da oltre un secolo. Prima erano il Kursaal e le cure idroterapiche, più tardi, le cene e i balli delle élite al Grand Hotel.
Dopo la seconda guerra mondiale, sono arrivate le vacanze per tutti, i villini borghesi scomparivano soffocati dalla crescita incondizionata di pensioni e alberghi di ogni forma, colore e tipo, mentre la spiaggia, così ampia e solitaria d’inverno, diventava un luna-park d’estate. Per non parlare della notte, ma siamo già negli anni ’80, prima fucina di avanguardie musicali e danzerecce e poi sempre più commerciale.
Oltre a molti di noi, a Rimini sono passati, come è noto, turisti inglesi, svedesi e tedeschi, che però a partire dagli anni ’90 iniziarono a affluire con meno consistenza. Con l’obiettivo di rinnovare l’internazionalizzazione della destinazione, da quel momento l’aeroporto di Rimini ha guardato a est concludendo una serie di intese con compagnie aeree charter dalla Federazione Russa.
In effetti, nel 2013, i turisti russi contavano più di duecentomila arrivi e poco meno di un milione di pernottamenti, rappresentando il primo segmento di turisti internazionali (circa un quarto del totale) nella Provincia di Rimini. Poi è arrivato il biennio di crisi che ha visto succedersi il crollo del rublo e il terremoto geopolitico tra Russia e Ucraina corredato da sanzioni e contro-sanzioni adottate da Washington, Bruxelles e Mosca da un lato, e la chiusura temporanea dell’Aeroporto Federico Fellini causa fallimento. E i turisti russi sono diminuiti drasticamente (più del 50% tra il 2014 e il 2015), senza comunque sparire.
In quell’anno di massima espansione ho preso un caffè con Natalia. Lavorava a Mosca per una compagnia di assicurazioni, aveva un buon reddito, ed era colta. A Rimini, era venuta per trovare un’amica. Le ho chiesto se conoscesse già la città. “Sì, certo: Rimini è famosa perché le persone vengono qui e a San Marino, per l’estate oppure per lo shopping”. In effetti, i turisti russi, riconoscibili fuori dalla stagione estiva se non altro per una lingua e un atteggiamento percepito spesso come chiassoso, sembravano, sin dal loro iniziale arrivo, apprezzare non solo o non tanto il patrimonio balneare, quanto la possibilità di fare shopping: borse, scarpe, profumi, gioielli e persino arredamenti per cucine.
Quando ho iniziato a frequentare Rimini per lavoro, tre anni fa, l’idea che si potesse venire qui per fare acquisti era fuori dalla mia immaginazione. Eppure, dopo avere imparato a traslitterare dal cirillico, mi sono accorta dei cartelli che promuovevano Шоп-туру (shopping tour) e dell’ansia dei commercianti per cercare di venire incontro ai desideri consumistici dei turisti russi, per esempio attraverso la scelta delle merci, della cartellonistica dedicata, dei partenariati tra agenzie di viaggio e spazi commerciali.
Un imprenditore, che gestisce a San Marino un centro interamente dedicato ai russi, mi spiega di aver non solo impiegato commesse che parlano russo e di vendere boršč al bar, ma anche di avere fatto una scelta merceologica per rispondere “al loro gusto, più luccicoso”. All’aeroporto di Rimini, prima della chiusura, la cartellonistica più visibile ritraeva belle donne impellicciate e rimandava agli spacci ai piedi del Monte Titano oppure, per le altre merci, al Gros di Rimini o al Center Gros di Bologna. Solo in un angolo, il corner istituzionale di promozione territoriale che proponeva foto di colline verdi e spiagge. Oltre alle strutture commerciali, nell’entroterra riminese e nel vicino marchigiano, ci sono infatti importanti distretti produttivi del tessile e calzaturieri.
Rapidamente spacci di fabbrica sconosciuti ai più si sono rifatti il trucco; il mio preferito resta quello di un noto produttore di scarpe che ha aggiunto di fronte alla fabbrica un “fashion outlet” corredato da un “fashion café”: dentro cristalli e fuori brandelli di pianura padana. Parte dei turisti interessati a questi luoghi sono in realtà suitcase traders, intermediari che vengono solo a ritirare valige già cariche di merci che saranno poi rivendute, utilizzando però strutture, servizi e visti turistici. Gli altri, i turisti “veri”, sono a Rimini per mera convenienza del tour operator, che qui può appoggiarsi a strutture a buon mercato, e proporre poi escursioni quotidiane nelle più classiche città d’arte del paese, oltre, comunque, all’immancabile shopping tour.
Le scelte che ho mostrato sopra – merchandising, advertising, e branding – si stendono sul paesaggio urbano e producono discorsi morali legati al consumo e attraverso i quali è essenzializzata la figura di un tipo di turista: amante del lusso, facile alla spesa, succube dei marchi, poco interessato a conoscere i luoghi in cui transita. È in questo processo di riduzione a uno stereotipo che si trovano incastrate persone come Olga o come quegli indonesiani che trovavano noioso visitare i grandi magazzini parigini.
Dall’altro lato è innegabile che il potere immaginifico dei marchi europei abbia un ascendente molto forte su turisti che vengono da altre società dei consumi, non indenni a processi di transculturazione. Per molti di questi turisti, ad esempio, l’acquisto di prodotti di abbigliamento e accessori europei corrisponde sia a una forma di consumo distintivo (mostrare la propria ricchezza, ostentare un certo stato sociale, vero o presunto) sia una forma di economia domestica (in Russia, ad esempio, prezzi per questo tipo di beni sono nettamente più alti che in Europa, complici anche le sanzioni).
Il turismo è oggi senza dubbio un’interessante sfera all’interno della quale osservare la trasformazione della società dei consumi e le ambiguità che si creano tra capitale, luoghi, persone. Alcuni “gusti” più di altri si prestano a essere valorizzati (nel senso letterale del termine) dando origine a modalità ambigue con cui il capitale penetra nel territorio. Dall’altro le rappresentazioni relative alla cosiddetta shopping experience non sono né estranee alle pratiche che si realizzano nei luoghi dell’andar per compere né alla costruzione delle soggettività contemporanee.
Ad esempio, come parte della mia posizionalità socio-culturale, di ritorno da un viaggio in Russia io vorrei portare una bottiglia di vodka – ma una vodka “fatta in casa” beninteso! Poi probabilmente finirei per comprarla nel comfort ovattato di un aeroporto, se non altro per semplificare, e non è un caso che oggi gli aeroporti siano i più grandi centri commerciali sulla piazza. Ecco perché credo che ci sia bisogno di più analisi critica, ma non ideologica, delle implicazioni e delle contraddizioni che un ambito come il turismo, considerato tanto economicamente strategico quanto culturalmente futile, porta con sé.