Enes Breshta arriva trafelato. Capelli biondi cortissimi, barba lunga. Sorride e si presenta: “Sono albanese, ho 32 anni. Mi sono laureato in giurisprudenza islamica in Siria, parecchi anni fa. Sono l’imam di questa sala di preghiera”. Siamo a Genova, in piazza Durazzo, prima tappa della passeggiata interculturale alla scoperta della comunità musulmana del centro storico, nell’ambito del progetto “moschee aperte”, organizzato dal Secolo XIX, il più importante e diffuso quotidiano di informazione in Liguria, e dai centri islamici genovesi per la promozione del dialogo e della tolleranza.
Tutti quelli che sono qui – una settantina di persone – hanno aderito allo spirito dell’iniziativa e vogliono capire, fare domande. Breshta prende fiato, raccoglie le idee e cerca le giuste parole giuste per rispondere ai quesiti. Il suo italiano non è perfetto, ma non è un problema: gli uni desiderano parlargli, lui muore dalla voglia di farsi capire e dar voce alla sua comunità. A un certo punto una ragazza gli chiede: “Perché le donne non possono pregare insieme agli uomini?”. La prima risposta è un po’ asciutta: “Perché così dice il Corano, il sacro testo dell’Islam”. La ragazza incalza: “Ok, ma vorrei capirne il motivo”. Serve una spiegazione, Breshta non si tira indietro: “Qui, come altrove, gli spazi per la preghiera sono separati. Ci sono quelli per gli uomini e quelli per le donne, ognuno con servizi igienici propri. Gli ambienti devono essere divisi non solo per ragioni pratiche, relative ai riti dell’abluzione, ma anche per garantire che i fedeli non si distraggano. La preghiera è un momento di contatto con l’Assoluto e quel momento deve essere protetto. La presenza nello stesso luogo di uomini e di donne può costituire fonte distrazione, turbamento”. In sala il pubblico elabora la risposta in silenzio. Ed è un primo passo, il punto di partenza di un approfondimento che potrà svolgersi in altre sedi e in differenti contesti.
Mi sposto all’esterno della sala, lontano dall’imam e dal gruppo principale dei visitatori. Sento borbottare, mi avvicino: è un esponente politico di sinistra, di certo sensibile ai temi del dialogo tra culture diverse. Dice di essere venuto qui perché “la tolleranza e la conoscenza dell’altro” sono importanti. Ma non riesce ad accettare il discorso sulla divisione degli spazi tra uomini e donne, che giudica del tutto “incompatibile con la nostra visione del mondo”. Gli dico che “moschee aperte” è un laboratorio continuo sulla convivenza. Per capirne le potenzialità occorre prima di tutto mettersi in ascolto, allargare i propri orizzonti. Nel progetto le moschee si aprono alla città e la città incontra le moschee, l’incontro e lo scambio avvengono in un verso e nell’altro.
Incrocio un altro imam, l’egiziano Alaa Ramzi, 42 anni. Torno sull’argomento divisione spazi in moschea e gli chiedo spiegazioni: dalla sua risposta capisco che nell’Islam le questioni del rapporto fedele-Allah e della “distrazione” sono in parte collegate al tema del “Sutrah”, l’oggetto che ogni praticante in preghiera dovrebbe frapporre fra sé e gli stimoli del mondo per preservare la purezza del contatto con il divino. Questa forma di protezione è di primaria importanza nella dottrina islamica.
Vado avanti e chiedo altri lumi a una donna di fede musulmana. Si chiama Micol Franceschi, ha 28 anni e si divide tra Genova, dove si è laureata, e Milano, dove lavora. Lei introduce due elementi diversi: il tema dell’imbarazzo e quello della libertà. “La separazione degli spazi in moschea è in primo luogo a tutela delle donne: se dovessi assumere le posizioni della preghiera davanti a un uomo mi sentirei piuttosto in soggezione. E poi, con uno spazio tutto nostro dove pregare e fare attività, siamo più libere di discutere di argomenti che ci riguardano direttamente”.
Ecco che, semplicemente parlando, il quadro si rende più complesso, l’approfondimento diventa più ricco. Questo processo di arricchimento e di scambio è uno degli obiettivi primari del progetto “moschee aperte”, oggi più che mai necessario di fronte al generale smarrimento e alla confusione provocati dalle notizie che leggiamo sui giornali o dai fatti che, a Colonia come a Parigi, accadono sotto casa.
La vicenda di Colonia in particolare – a prescindere dalle strumentalizzazioni politiche e dalla scarsità di informazioni relative all’inchiesta giudiziaria in corso sulle donne molestate a Capodanno – merita un approfondimento perché ha provocato un enorme impatto emotivo. Un impatto che, lo si voglia o meno, riguarda il nostro quotidiano e mette in discussione il nostro approccio al tema dell’integrazione. Mi vengono in mente, a riguardo, alcuni post che ho letto sulla pagina Facebook dello scrittore algerino Tahar Lamri, residente a Ravenna, subito dopo la diffusione della notizia. Erano stati pubblicati da alcune donne che cercavano un senso, un chiarimento. Della serie: “aiutaci a capire”, “come dobbiamo valutare questo episodio?”. Si percepiva, nei loro interventi, un grande smarrimento, per certi aspetti addirittura superiore a quello scaturito dagli attacchi terroristici a Parigi, forse più direttamente definiti nella loro tragica emergenza.
Questo tipo di choc non può essere dimenticato o messo da parte. Ci costringe in qualche modo a ripensare i fondamenti che sostengono la lotta contro le discriminazioni e l’idea stessa che si possa raggiungere un piano di convivenza accettabile, nell’emergenza apparente di una Differenza irriducibile, monolitica, aliena. E si badi: questo tormento si consuma interamente all’interno della sinistra europea e tira in ballo questioni controverse come il rapporto tra violenza e Islam o la possibile esistenza di una “zona grigia” tra i messaggeri del Jihad e i “buoni musulmani”. Le scuole di giurisprudenza islamica, quelle maggiormente diffuse, condannano senza mezzi termini qualsiasi atto di violenza. Ma questa precisazione sembra non essere sufficiente ad esaurire il problema.
Come uscirne? È il caso, ancora, di prendere contatto con chi ci sta accanto. Mi rivolgo nuovamente a Micol Franceschi: “La confusione è senz’altro una caratteristica del mondo in cui viviamo – dice – Siamo bombardati da notizie di ogni tipo, da fatti che appaiono difficilmente comprensibili sotto tutti i punti di vista. Prima di tutto ci poniamo la domanda: che cosa è effettivamente successo a Colonia? Chi sono le persone che avrebbero preso parte a questo rito collettivo di umiliazione delle donne? Una cosa è certa: se una donna è stata molestata non ci sono scuse, non ci sono molti discorsi da fare. Quello è un reato inaccettabile punto e basta. La possibilità che sia stata un’azione coordinata sulla base di una appartenenza ideologica o religiosa rende il quadro ancora più assurdo e folle”.
La questione, in ogni caso, è delicata: “Trovo difficile e problematico cercare di trovare il senso di questa storia mettendo in evidenza una relazione apparentemente esclusiva tra religione islamica e cultura – dice Micol Franceschi – Religione e cultura non sono la stessa cosa: i musulmani lo sanno bene perché sono immersi in culture molto diverse. Io sono musulmana ma sono anche italiana e sono imbevuta della storia e della cultura di questa nazione europea. Non esiste una nazione dell’Islam, così come non esiste un Paese della Cristianità. Dal mio punto di vista, di praticante e di cittadina, molestare una donna non solo è un reato ma non può trovare alcun fondamento nell’Islam e nei suoi principi di tolleranza, pace, misericordia”.
La finalità ultima del progetto “moschee aperte” è quella di favorire lo scambio e combattere la cultura del sospetto e della paura, legata in modo particolare all’attuale intensificazione dei movimenti migratori. Si tratta, in definitiva, di mettere in piedi un laboratorio militante sulla convivenza e di farlo ruotare attorno al principio della reciprocità. La partita, per quanto ci riguarda, si svolge qui, a Genova, e più in generale in Europa. E quando parlo di Europa intendo: la sua storia, le sue battaglie sociali, le sue contraddizioni e le sue tensioni democratiche. La reciprocità è una reazione di chimica sociale che non richiede né l’obbligo di un cambiamento né la negazione dell’origine, da una parte o dall’altra.
Tutto sta nella gestione della reazione, nell’elaborazione dei risultati che può dare (e non solo nel lungo periodo) alla luce delle conquiste sociali e politiche che caratterizzano la storia europea. Conquiste che stabiliscono in modo netto sia i limiti invalicabili entro i quali deve avvenire il possibile cambiamento, con particolare riferimento ai diritti, sia la direzione stessa di questo cambiamento. In sintesi: non si tratta di buttare nel cesso le battaglie civili che si svolgono – o si sono svolte – nelle viscere dell’Europa, ma piuttosto di liberare davvero il suo potenziale, la sua reale contemporaneità, a partire dalla cura del progetto di vita che è prossimo a ognuno di noi, nei quartieri delle nostre città, a Roma come a Milano, a Parigi come a Kos.
Per prima cosa si deve far valere il principio (non giuridico) della cittadinanza: in fondo io stesso, arrivato a Genova nove anni fa, adesso sono genovese. L’imam Breshta, che viene dall’Abania, è mio compaesano. La mia casa, questa chiesa o quella sala di preghiera islamica sono Genova. Genova è multietnica, questo è un dato di fatto. E da qui bisogna partire. Poi occorre focalizzare l’attenzione sul campo di azione di questo esercizio di cittadinanza: il nostro “mondo di prossimità”, potremmo dire.
La prossimità mette in relazione diversità ed è un contesto dinamico. Il tema di fondo è: come stiamo (già) gestendo questo frullatore di differenze che caratterizza la contemporaneità nel cuore dell’Europa? Quale direzione o percorso vorremmo che imboccasse questo incontro/movimento?
Ho voluto citare la questione della separazione degli ambienti per gli uomini e le donne nelle moschee e la vicenda del disorientamento del giorno-dopo-Colonia perché esemplificano bene lo spirito costruttivista del progetto “moschee aperte”. Un’iniziativa che, in Italia, appare unica nel suo genere. Non si è mai visto un giornale, nella sua essenziale ambiguità di impresa e organo di informazione, così in prima linea nella costruzione di un progetto sociale, a fianco di una comunità precisa (quella islamica) e più in generale della società che vorrebbe raccontare. Si tratta peraltro di un tentativo che si inserisce perfettamente nelle linee guida del programma Ue “Europa per i cittadini”, che pone tra le sue priorità (nel 2016) “la lotta contro la stigmatizzazione degli ‘immigrati’ e la costruzione di contro-narrazioni per incoraggiare il dialogo e la comprensione reciproca”.
La presenza di un giornale, inoltre, risolve anche una delle ossessioni dell’Unione Europea che in questi anni non è riuscita a comunicare bene ai suoi cittadini il gigantesco sforzo compiuto verso la promozione di un senso civico comunitario fondato sull’inclusione e sulla partecipazione alla vita delle sue istituzioni. I centri islamici genovesi, d’altra parte, si sono dimostrati subito entusiasti all’idea, intendendola come una possibile via di uscita da una pressione mediatica che continua a schiacciarli e a descriverli con la lente del Jihad. Hanno colto l’opportunità e condiviso la filosofia di tutta l’operazione, anche grazie alla loro grande esperienza di militanza attiva nei quartieri: “Dopo gli ultimi attentati di Parigi e di fronte ai numerosi conflitti che contraddistinguono la storia del nostro presente siamo sempre più esposti a forze e interessi, più che altro materiali, che vorrebbero dividerci – dice Salah Husein, responsabile del Centro islamico di Genova di via Sasso – Questi interessi generano super narrazioni astratte, ideologie vuote che inneggiano all’odio xenofobo e allo scontro tra civiltà, calpestando i corpi e le storie di ognuno di noi. Dobbiamo riprenderci le nostre vite, ma con il sorriso e la leggerezza, con la curiosità e lo scambio di esperienze”.
Il sangue degli innocenti divide anche nella solidarietà: la schizofrenica battaglia sui social network a suon di selfie (“Je Suis Paris” o “Je Suis Syria”) dopo la mattanza al Bataclan parigino ne è la prova. “Moschee aperte”, iniziativa laica e culturale a differenza di quel che potrebbe suggerire il nome, vorrebbe interrompere il perverso meccanismo legato all’astrazione, alle frettolose prese di posizione e contribuire a chiarire le modalità e le forme di un possibile laboratorio permanente sulla convivenza. Come ha sottolineato il direttore del Secolo XIX Alessandro Cassinis, in un editoriale pubblicato nella giornata inaugurale del progetto (13 dicembre), una particolare attenzione va rivolta alle nuove generazioni con un programma di laboratori creativi: “Oggi e domenica 20 dicembre ‘Moschee aperte’ ci aiuterà non solo a conoscere meglio i luoghi di preghiera frequentati dalla popolazione di fede islamica, minacciata dal sospetto che il clima di terrore generato dalla folle strage di Parigi ha instillato anche nelle menti più aperte, ma anche a condividere la cucina, i sogni e le storie dei musulmani di Genova. E per essere più sicuri che questa semplice presa di contatto lasci il segno, abbiamo messo al centro dell’iniziativa i bambini di tutte le etnie, che potranno ascoltare favole e racconti di terre così lontane, così vicine”.
La ferocia di azioni disumane, in Siria come in altre parti del mondo, sembrano testimoniare la differenza tra due tempi e modalità del vivere comune, che potremmo qui ridurre all’essenziale scontro tra civiltà e barbarie, tra un mondo lanciato verso la conquista dei diritti e un mondo che li nega o che è rimasto “indietro”. Il primo fantasma da isolare, comprendere e neutralizzare si costruisce e si dispiega nel potere narrativo di un inganno. L’inganno della categoria della “pre-modernità”.
Prendo a prestito il concetto dal sociologo indiano Partha Chatterjee (Oltre la cittadinanza, Roma, Meltemi, 2006) – interessato all’analisi delle forme di politica e cittadinanza proprie dei “governati”, ovvero di quelle porzioni di umanità che non hanno preso parte direttamente allo sviluppo storico delle istituzioni dello “Stato moderno” e della “moderna democrazia capitalistica” – e cerco di immergerlo nel quadro del laboratorio sociale “moschee aperte”. Il progetto di questo laboratorio non cerca di mettere insieme pezzi di storie e tempi diversi: la modernità di un’Europa oggi intrinsecamente laica in contrapposizione alla pre-modernità di un universo islamico di stampo medievale trascinato fin qui dalle sciagurate contingenze della storia “per imporre ai miscredenti” la sottomissione delle donne o il principio della sovrapposizione tra ordinamento giuridico e parola di Dio. La fede in una dialettica moderno/pre-moderno, che spesso viene utilizzata per spiegare il fenomeno religioso e in particolare l’emergenza del fanatismo integralista, porta direttamente a queste pericolose interpretazioni della storia. Meglio muoversi in una categoria diversa, intrinsecamente inclusiva: la contemporaneità.
La dimensione della contemporaneità – oltre a cogliere il nesso tra integralismo religioso, terrorismo e globalizzazione (come ben descrive Gilles Kepel dell’Istituto di studi politici di Parigi nel suo Fitna, Guerra nel cuore dell’Islam, Laterza, 2006) – ci permette di definire nuove linee strategiche di azione politica sulla materia stessa della convivenza. La contemporaneità è il movimento, non lineare, che ci porta a scoprire i limiti e i nuovi orizzonti del nostro modo di stare insieme. Non c’è alcun obiettivo trascendentale da perseguire, come la definizione di un modello che possa valere a priori ovunque nel mondo. Ma la consapevolezza che la contemporaneità, a partire dalle particolari contingenze del “qui ed ora” e dal dinamismo storico di nuove istanze legate al succedersi delle generazioni, contenga già in sé stessa la possibilità di metabolizzare le differenze e costruire nuovi e più adeguati organismi comunitari.
Il sindaco di Genova Marco Doria, intervenuto nella serata conclusiva del progetto “moschee aperte”, nella sala di preghiera di via Sasso, a Genova Sampierdarena, ha voluto specificare il valore del lavoro di questa contemporaneità genovese: “Non mi interessa se in alcune zone del mondo i diritti alla preghiera non vengono rispettati, se vi sono pratiche disumane di violenza e sopraffazione. A me interessa che qui, a Genova, il diritto alla preghiera venga rispettato e che non ci sia spazio per l’intolleranza. Non si possono negare le culture degli altri solo perché nel mondo accadono atrocità tanto nelle chiese quanto nelle sinagoghe o nelle moschee. Noi condanniamo tutte le atrocità, ma vogliamo e dobbiamo proporre un nostro modello di convivenza”. Ecco “moschee aperte” rappresenta il presidio militante di questo modello.
Un laboratorio che vede il futuro dell’Umano, per usare un termine caro al filosofo tedesco Ernst Bloch (Experimentum Mundi. La domanda centrale, le categorie del portare-fuori, la prassi, Editrice Queriniana, 1980), come un “esperimento”, una possibilità: “Il nuovo che nasce dalla trasformazione, quel che non è ancora apparso, pur avendo certamente la possibilità di apparire, ossia che è contenuto [nell’ora] come disposizione germinale”.
Occorre rimboccarsi le maniche, guardare alla “banalità” e alle contraddizioni del quotidiano, continuando a porre la questione della convivenza come un problema inesauribile, perché il futuro è contenuto in eventi attuali non pienamente condizionati, determinati e prevedibili. “Si cela sempre, perciò, l’elemento della sorpresa, vale a dire, relativamente al futuro umano, l’elemento del rischio oppure della salvezza”.
Moschee aperte è un progetto culturale per la promozione del dialogo e delle pratiche di tolleranza a cura di Pablo Calzeroni per il Secolo XIX con i centri islamici genovesi, in collaborazione con U-Boot Architettura Paesaggio Ricerca, Il Formicaio, Ce.Sto, Viaggi Solidali, Acra e con il supporto di Associazione Panificatori Genova e Provincia. Le prime iniziative si sono svolte a Genova in due domeniche successive, il 13 e il 20 dicembre: visite guidate con gli imam in sette sale di preghiera della città, laboratori per bambini, passeggiate interculturali, pranzi e cene con tè e piatti tipici della cucina araba e genovese. L’idea è quella di continuare. E’ in corso uno studio preliminare per la definizione di un possibile modello di laboratorio sulla convivenza che possa essere applicato in un più ampio contesto a livello europeo.