L’Italia è una repubblica fondata sul taglio dei nastri, e sulle relative forbici. Se andiamo indietro negli anni, la memoria di ciascuno di noi riporterà alla luce cerimonie con sindaci, assessori, sottosegretari, ministri alle prese con il fatidico taglio: dalla diga al campo di calcio, dalla tangenziale al palazzetto dello sport. E questo nei grigi (perché il ricordo è in bianco e nero) anni democristiani, nei rosei (intesi come rosso pallido) anni ulivisti e negli azzurri anni polisti che stiamo vivendo. L’opera pubblica intesa come strumento di comunicazione e di propaganda elettorale mica l’ha scoperta Berlusconi (che pure sulle grandi opere ha giocato la sfida più rischiosa del suo governo e del ponte sullo Stretto intende fare il suo mausoleo a imperituro ricordo della propria autoproclamata grandezza), fa parte del Dna nazionale; c’è chi lo fa meglio e chi peggio, chi si limita all’effetto annuncio e chi in qualche maniera, magari con anni di ritardo, finalizza. Di fatto le grandi opere, in particolare le infrastrutture di trasporto, non piacciono a chi governa – a livello centrale o locale – perché essendo di lunga durata, possono concludersi sotto un’altra amministrazione, magari di colore diverso. È per questo che le prime pietre sono la cosa che interessa principalmente – se non esclusivamente – i pubblici amministratori, perché l’unica capace di attrarre le telecamere. E con lo sviluppo attuale dei mass media il fenomeno è destinato ad accentuarsi. Queste cose le dice nel nostro servizio di copertina un autorevole docente universitario, il professor Lanfranco Senn della Bocconi, analizzando le motivazioni strutturali del pesante gap nel settore dei trasporti nei confronti degli altri paesi europei che l’Italia non riesce a colmare. Si va dai vari interessi lobbistici che hanno impedito e continuano a impedire ogni forma di ammodernamento del sistema, all’estremismo ideologico degli ambientalisti, al soffocante laccio della burocrazia, alla mancanza di una cultura della gestione di sistemi complessi.
Per cui chi progetta un nuovo aeroporto non si preoccupa della rete viaria e ferroviaria di collegamento: ci penserà qualcun altro; ma il qualcun altro non c’è e non ci sono nemmeno autorevoli “cabine di regia”, per usare una parola fin troppo abusata in questi ultimi tempi. Sull’inefficienza e l’inefficacia dei meccanismi decisionali, e sul devastante effetto del diritto di veto da parte delle amministrazioni locali, riportiamo la riflessione di Marco Piuri, direttore generale delle Ferrovie Nord Milano. Sulle incongruenze del sistema aeroportuale in termini infrastrutturali dà un contributo l’altro docente bocconiano David Jarach, mentre sulle problematiche delle interconnessioni tra porti e sistema stradale interviene il presidente di Assiterminal Cirillo Orlandi. C’è infine il nodo finanziario. Se lo Stato non è più in grado di finanziare da solo le infrastrutture pubbliche, è necessario aprire ai privati. Il project financing, dicono Gianfranco Imperatori di Kpmg e