Sono tutti d’accordo, istituzioni, imprenditori, sindacati. Le aziende italiane sono troppo piccole e devono crescere. Ma quando dalla dichiarazione di principio si passa ai fatti concreti, cominciano i problemi. Il costo aziendale del personale è troppo alto; il reinvestimento degli utili è meno conveniente dal punto di vista fiscale rispetto al ritiro dei dividendi; la burocrazia (locale, nazionale, europea) è un mostro che apre subito le sue fauci come ci si presenta al suo cospetto; il ricorso al credito ordinario è ancora legato al vecchio schema delle garanzie personali e le modalità finanziarie di nuovo tipo stentano ad affermarsi; per crescere è anche necessario incrementare le competenze manageriali dell’azienda e questo il più delle volte si deve fare ricorrendo a professionisti esterni alla famiglia, passaggio spesso osteggiato da una cultura ancora imprenditorial-familistica. E si potrebbe continuare.
Come si vede, aspetti tecnici, finanziari, organizzativi che denunciano il più ampio problema di una cultura d’impresa inadeguata sia nei piccoli imprenditori, che hanno – finora – fatto la fortuna del paese, sia nelle istituzioni che stanno loro intorno, in primis della finanza e della Pubblica Amministrazione.
L’ampia inchiesta di questo numero de L’Impresa, che rappresenta la continuazione di quella del fascicolo precedente sulle aziende familiari, si collega naturalmente con il Dossier Formazione manageriale pubblicato più avanti. Perché non ci può essere crescita senza innovazione, innovazione senza ricerca e ricerca senza formazione, come afferma tra l’altro il documento congiunto Confindustria-Conferenza dei Rettori sottoscritto alla fine di luglio. Poiché l’innovazione non è solo di prodotto o di processo, ma anche di organizzazione, è evidente che un “sistema educativo” integrato dovrà coinvolgere tutti questi aspetti e armonizzarli al meglio. Non servono solo bravi ingegneri o bravi tecnici, o ingegneri bravi tecnicamente: servono ingegneri capaci di capire la portata di mercato delle innovazioni a cui lavorano e il loro impatto sull’organizzazione delle aziende. E questo vale per tutte le altre funzioni e professioni d’impresa.
Dal momento che la competizione mondiale non si gioca più sulla svalutazione della lira o sui costi di produzione – dove la partita è irrimediabilmente e definitivamente persa – il nuovo scenario competitivo in cui il nostro paese può – e deve – ancora dire qualcosa (anzi molto) si gioca sul terreno del cervello (progettazione, design, brevetti, marketing) più che su quello delle braccia. E il cervello si sviluppa solo con la formazione continua. Anche qui – a parole – tutti sono d’accordo. Salvo considerare la formazione un costo e tagliarla come prima risposta al primo accenno di difficoltà aziendali. Senza dimenticare i tagli governativi agli investimenti in ricerca e sviluppo, che certo non vanno nella direzione di una ripresa di competitività del nostro sistema paese. Con l’1,3% del Pil destinato alla ricerca invece del 2% e oltre dei nostri vicini di casa non si va molto lontano.
Continuiamo a trascurare la ricerca e la formazione. I nostri figli ce ne saranno grati.