Il vantaggio competitivo delle nazioni risiede nella testa dei cittadini: un software chiamato Conoscenza. Questo qualcosa che sta nel nostro cervello ha bisogno di essere alimentato costantemente, così come il corpo fisico che lo racchiude. E l’alimentazione si chiama scuola, studio, formazione o – come direbbe chi è stato a New York – education.
Quello educativo è un processo che sempre più riguarda l’intera vita dell’individuo, dall’età prescolare al compimento del ciclo lavorativo, con la consapevolezza che non stare al passo con le competenze richieste dal mercato (il cui ritmo di cambiamento è sempre più rapido) significa perdere opportunità professionali o addirittura uscire dal mondo del lavoro. Quello della lifelong education è quindi uno dei progetti che i governi devono mettere ai primi posti nella lista delle priorità strategiche. Senza education non c’è innovazione, perché l’innovazione nasce dalla ricerca, e questa deriva dalla formazione. Un circolo che se gira nel verso giusto è virtuoso, se gira nel verso sbagliato è vizioso. Lo scrive a chiare lettere il vicepresidente di Confindustria Gianfelice Rocca nel documento pubblicato in questo numero della nostra rivista: le imprese, per sopravvivere, devono trasformarsi in “fabbriche della conoscenza” e le istituzioni formative in “fabbriche della conoscenza e della cittadinanza”.
L’agenda fissata dai capi di governo europei a Lisbona nel 2000, che si proponeva di fare dell’economia UE quella più competitiva nel mondo basata sulla conoscenza, è in ritardo. Ma anche nel ritardo c’è chi è più avanti e chi più indietro. L’Italia fa parte della pattuglia di retroguardia. La recentissima indagine di Almalaurea su un campione di 56mila neolaureati di 40 università denuncia la crescente contrazione dell’ingresso nel mercato del lavoro: il tasso di occupazione a un anno dalla laurea è del 54,2%, a tre del 73%, a cinque dell’86%. E chi riesce a “entrare” ha stipendi di ingresso intorno ai 1.000 euro al mese, la cui crescita sarà poi lenta e faticosa.
Della consapevolezza che c’è innovazione solo in presenza di un adeguato sistema formativo non c’e traccia nel provvedimento sulla competitività che il governo ha presentato alle parti sociali a fine febbraio. Un documento che certo risponde positivamente ad alcune esigenze delle imprese: snellire la burocrazia, potenziare gli ammortizzatori sociali, incentivare la crescita dimensionale delle piccole aziende, riformare la disciplina fallimentare, potenziare le reti infrastrutturali, detassare le ricerche congiunte con le università eccetera. Ma questo piano d’azione sembra più una somma di singoli provvedimenti “tattici” che un progetto organico di alta visione, dal quale far discendere le attività specifiche. In che modo “creare” nuove generazioni di imprenditori, manager, tecnici, professionisti capaci di rendere competitivo il nostro sistema economico nei settori chiave dell’innovazione (che questo numero de L’Impresa sintetizza in dieci grandi frontiere)? Nel documento non c’è traccia di questo interrogativo.
Mancano, appunto, interventi che agiscano sulla dinamica education-innovazione, che è il vero nodo cruciale del Sistema Paese. Probabilmente la risposta sta in una considerazione pragmatica e un po’ cinica: la politica dei politici non si misura con i tempi