Quell’autostrada è un muro. Una linea di fuoco lunga quarantadue chilometri, che da Beirut conduce verso il nord del Libano, fino a Tripoli.
Tra la città e il suo mare, una lenta sedimentazione di frammenti sospesi e insediamenti spontanei, segni e simboli progressivamente inglobati nel disegno informale dello spazio urbano: una gigantografia di Papa Francesco a ricordo del genocidio armeno; le gru del porto, landmark atemporali di un paesaggio in continuo movimento; architetture razionaliste sopravvissute alla guerra civile, reliquie di una modernità sbilenca che il Libano ha sperimentato negli anni sessanta.
Episodi eroici, entità senza scala che ancora oggi costituiscono l’ossatura infrastrutturale della città. Lessico e stilemi occidentali esportati in Medio Oriente.
Insegne luminose, alberghi a ore, strutture turistiche in disuso trasformatesi in strip club: il post-modernismo architettonico sposa un capitalismo feticcio a Maameltein, poco fuori Beirut.
E poi Charles Helou, un edificio-ponte lungo più di trecento metri, eterotopia costruita ma parzialmente abbandonata, dove convivono diversi usi: mercati improvvisati, spazi di preghiera, commercio, e il più grande terminal di autobus del paese. Da qui è possibile raggiungere, a ogni ora del giorno e della notte, Damasco, Amman, la Turchia.
Al centro della città, in Martyrs’ Square, un tempo luogo collettivo per antonomasia, sorge la Moschea sunnita Mohammad Al-Amin, costruita nel 2007 da chi la guerra l’ha vinta: in Libano pare non esserci spazio per processi condivisi di riconciliazione.
Leggere Beirut come il risultato di un processo lineare e univoco di stratificazione spazio-temporale è fuorviante, oltre che impossibile: ogni fase della sua storia è controversa per natura, rimossa o celebrata a seconda dei casi.
Tra le pieghe di una sbandierata ambizione multiculturalista e cosmopolita, è però possibile ritrovare nella capitale libanese tutte le contraddizioni e incongruenze che da anni caratterizzano il Medio Oriente; spinte religiose, interessi economici e strategie di espansione rendono la città una sorta di laboratorio geopolitico, capace di riprodurre a piccola scala le dinamiche e le tensioni di una intera regione.