Pubblichiamo un estratto dall’ultimo ebook di cheFare in uscita nei prossimi giorni: Lavoro totale di Maurizio Buscacca (cheFare/doppiozero). L’ebook sarà disponibile gratuitamente sui principali store online
I protagonisti di questo scritto sono i knowledge workers (Masiero, 2014) e ancora più precisamente quel precariato cognitivo che vive lo spazio tra il lavoro, il non-lavoro e l’impresa. I lavoratori della conoscenza agiscono infatti all’interno delle organizzazioni e delle imprese, ma anche al di fuori di esse come lavoratori autonomi di seconda generazione (Bologna-Fumagalli, 1997). A partire dall’ultimo decennio del secolo scorso (Nimmo-Combs, 1992) non sono più solo gli opinionisti, gli esperti, i creativi e i blogger a generare contenuti cognitivi, ma abbiamo assistito ad un’impressionante incremento del numero di soggetti in grado di esercitare forme di produzione e diffusione di prodotti cognitivi, i quali vivono una condizione occupazionale e professionale stretta in una tenaglia di vincoli e opportunità, precarietà e flessibilità, che presentano delle peculiarità tali da poterli inquadrare come classe in sé […].
L’essere umano che si muove all’interno di questa nuova cultura lavorativa ne resta imbrigliato in tutta la sua soggettività fino a far diventare l’intera vita una parte centrale del lavoro. L’individualizzazione, da progetto di emancipazione del soggetto, si trasforma in necessaria struttura portante del capitalismo, una struttura che si regge sulla visione di una società che, mentre promette un cambiamento epocale attraverso il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ne rimuove gli effetti proprio su quanti non hanno pari accesso alla conoscenza (Dieci-Masiero, 2013).
A fronte di un’élite di professionisti ben retribuiti c’è una parte di lavoratori qualificati che hanno condizioni di reddito e di autonomia decisamente più incerte, fino alla paradossale situazione di figure interessate da veri e propri fenomeni di declassamento.
Quando parliamo di lavoratori della conoscenza non parliamo solo di artisti, musicisti, blogger, formatori e consulenti, come parrebbe invece suggerire la retorica circolante, ma al tempo stesso di lavoratori precari, mobili, poveri, migranti, donne, giovani… tutte categorie classificate come svantaggiate dalla normativa europea e nazionale seppur in presenza di alti livelli di scolarizzazione e competenza professionale.
Parliamo di lavoratrici e lavoratori che travalicano il confine del lavoro culturale-creativo in senso stretto e che si distribuiscono in una molteplicità di settori, dal welfare all’artigianato, dall’arte alla manifattura, dall’istruzione alla consulenza aziendale. Esseri umani che vivono in una condizione di flessibilità permanente e permanentemente alla ricerca di sicurezza.
Non parliamo quindi solo di disoccupati, inoccupati o intermittenti, ma anche di dipendenti, atipici, parasubordinati, con partita iva e titolari d’impresa, spesso individuale. Soggetti che in larga parte sono dotati di una cittadinanza residuale perché sezionati in una lunga serie di identità professionali e perché non godono degli stessi diritti sociali e previdenziali (e in ultima istanza politici) dei loro concittadini che appartengono agli ordini professionali o tutelati dalle rappresentanze sindacali, dalle lobbies o da gruppi di pressione.
Nell’arco di pochi anni gli esseri umani sono stati effettivamente liberati dalla weberiana gabbia d’acciaio dell’impresa e dello Stato, ma al suo posto l’individuo si è trovato più solo a gestire la flessibilità e la frammentarietà della propria esperienza di vita, particolarmente nella sfera del lavoro. Flessibilità e leggerezza sono ora le parole d’ordine della cultura del nuovo capitalismo, ma il singolo non ne ha ricavato maggiore libertà o possibilità di scelta, quanto piuttosto l’insicurezza e l’ansia per il futuro (Sennet, 2006).
I lavoratori e le lavoratrici dell’immateriale, infatti, non sono tutti uguali. Ce ne sono alcuni più uguali degli altri e possiamo tentare di segmentarli andando oltre la più tradizionale stratificazione fondata sulle competenze (Cominu-Musso, 2009a). C’è un gruppo “alto”, una élite dotata del mix di capitali e risorse per estrarre un elevato valore aggiunto dalla propria condizione di flessibilità per raggiungere le vette del successo neoliberale. C’è un gruppo “medio” che impiega il proprio capitale simbolico, culturale, economico e sociale per raggiungere una condizione di esistenza accomunabile a quella delle condizioni storiche del lavoro, anche ricostruendo nuove forme di welfare.
C’è infine un gruppo “basso” composto da una ciurmaglia di individui che vive in condizioni di sussistenza, nomadismo e ai limiti della legalità, se non nell’illegalità5. Persone per le quali la differenza tra lavoro bianco e lavoro nero è una sfumatura cromatica, che piegano forme contrattuali e occasionali al bisogno occupazionale, che si spostano laddove un’opportunità lavorativa si annuncia, che accettano condizioni di lavoro prossime allo sfruttamento,… Un gruppo sociale per il quale è ingiusto parlare di sogni nel cassetto ma si dovrebbe parlare di sogni che hanno rubato anche il cassetto.
I knowdledge workers si presentano così come il rompicapo della cittadinanza contemporanea, articolati in una pluralità di popolazioni concentrate e attirate dai settori di punta del capitale globale che stabilizza le sue centrali di servizio nelle città (Sassen, 2002), che diventano un terreno strategico per tutta una serie di conflitti e contraddizioni. È l’alto livello di concentrazione di queste dinamiche che richiede risposte creative e innovazioni, le quali a loro volta stanno creando non solo nuove strutture di potere, ma anche aperture per nuovi tipi di attori politici.
Si tratta di attori politici che operano in un ambiente urbano caratterizzato dall’affermazione di tre importanti concetti che hanno sostanziato altrettanti fenomeni e retoriche: Social Innovation, Start up e Sharing Economy che, in ordine di apparizione, hanno innescato dei processi e delle pratiche che oggi si manifestano nella costante ricerca di convergenze e coerenze. Bisogni emergenti, ritirata delle istituzioni, disintermediazione del rapporto tra Stato e cittadini, nuove tecnologie, prosuming e collaborazione sono i punti di contatto più evidenti tra i tre fenomeni.
Da sempre più parti si ipotizza che questa convergenza sappia garantire agli utenti-produttori (prosumer) maggiori garanzie e sicurezze e soprattutto evitare che il capitale riconduca la social innovation e la sharing economy verso gli storici modelli di accumulo a favore di pochi, perdendo così il loro valore sociale e la carica innovativa. Sarà vero? Oppure sono anche queste strategie coerenti per perfezionare l’iniquità del sistema così come la abbiamo conosciuta fino ad oggi? Oppure si tratta di fenomeni che generano nuove sovrastrutture di liberazione degli individui dalla morsa formale del lavoro operazionale?
La questione di policy che si articolerà lungo tutto questo ebook è proprio che farcene di questi lavoratori cognitivi? Lasciare operare liberamente un motore di selezione neoliberista? Oppure sviluppare politiche per garantire la mobilità sociale e la possibilità di emancipazione? Oppure alimentare un immaginario radicale per sostenere una diversa società (Castoriadis, 1975)?
Prima di provare a rispondere a questa domanda è necessario fare un passo indietro e tentare di individuare la condizione materiale del lavoro immateriale di cui sto parlando. Immaterialità, flessibilità e precarietà non bastano a spiegare il fenomeno laddove è evidente la stessa materialità del lavoro immateriale, il cui prodotto non può essere separato dal soggetto che lo produce.
Storytelling, personal branding, aggiornamenti continui del curriculum vitae, performance social-mediali e offline, workshop, conferenze, pubblicazioni, commenti, tweet, post, ricerche… ci presentano un lavoro nel quale tutti sono chiamati a performare il proprio io professionale attraverso forme diverse di visibilità e valutazione (Nicoli, 2015) per costruirsi materialmente “un corpo incorporeo, un corpo-simulacro, che funzioni come significante visibile della propria verità”.
Non si tratta solo di accettare di lavorare a condizioni in alcuni casi umilianti per fare curriculum, per farsi una reputazione, per rendersi visibili,… Non si tratta solo di accettare il differimento del godimento ad un tempo futuro nel quale raccogliere i frutti di quanto prima seminato… Non rappresenta solo la costruzione di un vantaggio competitivo nei confronti di un esercito di riservisti dal quale la produzione cognitiva può sempre trarre nuove forze fresche… (peraltro tutti fenomeni già conosciuti nella storica relazione tra capitale e lavoro).
Si tratta soprattutto di un’attività incessante, continua e auto-prodotta. Esiste quindi una sorta di continuità tra la dimensione di lavoratore intellettuale e quella di imprenditore del sé nel dare forma ad una vita che non ammette tempi improduttivi e che premia la totale dedizione al tempo di lavoro con meccanismi reputazionali, di visibilità e di valutazione. Il tempo nel lavoro contemporaneo si dilata, si comprime e si intensifica, rendendo permeabili i confini tra tempi di vita e di lavoro. Per molti individui lo sforamento delle 40 ore settimanali di lavoro rappresenta la norma, per alcuni anche le 50 ore non sono un limite invalicabile per raggiungere obiettivi di risultato, scadenze rigide e la risoluzione di imprevisti.
Se il tempo di lavoro diventa discriminante nei processi di valutazione e visibilità del lavoro stesso, allora, possiamo affermare che la quantità di lavoro gratuito ‘offerta’ nella produzione immateriale è incredibilmente alta dal momento che i salari non paiono crescere proporzionalmente. La simultanea presenza di retribuzioni “normali” e tempi di lavoro dilatati, infatti, trasforma la gratuità del lavoro distribuito in uno degli ingredienti base della produzione cognitiva. “Di fronte alla disponibilità al lavoro gratuito, alla spinta verso la competizione e l’iper-produttività, al bisogno di continue (auto)valutazioni meritocratiche, all’intensificazione della precarietà delle condizioni di esistenza, la soggettivazione appare come la vera retribuzione del lavoro cognitivo” (Nicoli, 2014).
Il rapporto tra tempo di lavoro, salario e tempo libero produce così nuove geografie totalizzanti. Disponibilità totale al lavoro e gratuità del lavoro stesso diventano due dimensioni caratterizzanti il lavoro contemporaneo. Di fronte ad un lavoro che si prende intere vite i temi dell’intermittenza, della flessibilità e della committenza passano paradossalmente in secondo piano rispetto ai temi del tempo e della gratuità, attraverso i quali il lavoro occupa lo spazio del bios, del genere, della cultura, delle relazioni, del sociale, della politica…