Da quando vivo a San Francisco, i techies sono diventati il mio nemico numero uno. I techies sono giovani automi che lavorano per i leviatani della tecnocrazia e guadagnano stipendi sproporzionati a quelli della gente in carne e ossa; i techies viaggiano sui lussuosi pullman privati con il wifi e i finestrini oscurati che rubano le fermate agli autobus puzzolenti e ritardatari del trasporto pubblico; i techies si accaparrano tutte le case, offrendo il doppio in più del prezzo di partenza, pagando milioni in contanti e provocando la follia immobiliare che ha sfrattato un sacco di gente in carne e ossa e trasformato la città in un dormitorio per ventenni danarosi (quanto agli affitti, le ultime notizie parlano di $6800 al mese per un bilocale nel Mission District, l’ex quartiere ispanico-working class; ma i prezzi continuano a salire); i techies per un po’ sono diventati anche glassholes (neologismo per indicare gli stronzi – assholes – che indossavano Google Glass), universalmente odiati e scacciati in malo modo dai locali pubblici, finché per fortuna, anche se solo temporaneamente, la distribuzione dell’infernale aggeggio rovinavista è stata sospesa. Alcuni techies sono anche miei amici, ma non importa, il mio affetto per loro non diminuisce il mio odio per la categoria.
Mi piacerebbe tanto scrivere un articolo cattivo su qualche leviatano della Silicon Valley, ce n’è uno che mi sta particolarmente antipatico e ci godrei da matti a infiltrarmi per indagare su alcune cosucce che ho saputo, tipo le impronte dei piedi disegnate sul pavimento tra l’ufficio e il bagno, per far sì che l’impiegata, se proprio non può fare a meno di pisciare, possa almeno raggiungere il gabinetto seguendo il percorso più efficiente. O come l’assoluto divieto per gli impiegati di basso livello di rivolgere la parola ai preziosi ingegneri, anche se dovessero trovarsi fianco a fianco con loro mentre degustano un frozen yogurt al tè verde nell’avveniristica cafeteria. Purtroppo però devo accontentarmi di brandelli di storie come queste, soffiate anonime e inaffidabili, perché se volessi farmi assumere per poi pubblicare un libro-denuncia dovrei a mia volta assumere il più bravo avvocato degli Stati Uniti, e probabilmente neanche così potrei sottrarmi alla furia del leviatano per aver infranto il suo inflessibile accordo di non divulgazione.
E allora, frustrata nel mio odio che posso incoerentemente sfogare solo attraverso quei social media che in realtà sono le lucrose creature e le armi più efficaci del mio nemico, ho salutato con interesse l’apertura di un locale dove anch’io, l’ultima luddista di San Francisco, posso infiltrarmi e osservare le creature aliene che mi circondano. Si tratta di Eatsa, il nuovo fast food «completamente automatizzato» che ha da poco aperto i battenti nel quartiere SoMa (che sta per South of Market, ma è anche un nome perfetto per questo Mondo Nuovo). I suoi fondatori, Tim Young e Scott Drummond, sono alla prima esperienza nel mondo della ristorazione. Young, dopo aver guadagnato alcuni miliardi vendendo alla Hewlett-Packard la sua precedente creatura, Autonomy, è oggi tra i fondatori di Eniac Ventures, una società che prende il nome dal primo computer elettronico completamente digitale e che opera nella fondata convinzione che «il più grande catalizzatore tecnologico del nostro tempo sia la proliferazione di dispositivi collegati a internet che forniscono costante connettività alla maggioranza della popolazione mondiale»; Drummond invece viene dal settore del branding, e nelle interviste dice cose un po’ ovvie tipo: «Abbiamo usato la tecnologia per rendere più efficiente l’intera operazione». Malgrado abbiano dichiarato di voler usare la tecnologia anche «per reinventare il fast food», Young e Drummond non sono i primi a voler rendere più efficiente l’intera operazione. Il primo Automat degli Stati Uniti, un fast food in cui cibo e bevande venivano serviti da distributori automatici, aprì a Philadelphia nel 1902; dieci anni dopo arrivò a New York, da dove si diffuse nelle città industriali del Nord.