I concreti processi di de-territorializzazione della vita corrispondono a un fenomeno storico paradossale in cui l’onnipresenza di macchine e tecnologie di tutti i tipi non soltanto non ha – come si credeva un tempo – liberato gli uomini dal lavoro, ma ha anzi promosso e accelerato un’“artificializzazione” del vivente e del mondo. Tecnica e artefatti sono arrivati a costituire un vero e proprio altro, ovvero uno schermo che sembra allontanare il vivente e l’uomo da se stesso. In realtà, non si può davvero affermare che un uomo, o un vivente qualunque, sia “allontanato da se stesso”, perché ciò lascerebbe falsamente supporre l’esistenza di un’essenza sana, trans-situazionale, metafisica, al di là delle tecniche e dei cambiamenti storici. Ma l’uomo produce se stesso nella produzione sociale della sua esistenza. Non c’è essere umano scindibile dalle tecniche della sua epoca. L’uomo, la tecnica, l’ecosistema evolvono insieme e si co-determinano a vicenda… E tuttavia le nuove sofferenze contemporanee trovano la propria origine nel dominio dell’artefatto sulla vita. Indagare tale dominio significa quindi fare luce su quelle sofferenze.
Pubblichiamo un estratto da Oltre le passioni tristi (Feltrinelli, 2016)
Il fenomeno vivente si fonda sulla capacità degli organismi di entrare in interazione tra loro così come su quella, diversa per ciascuna specie, di operare dei tagli nell’insieme a priori continuo del proprio ambiente in modo da formare unità significative. Nel caso della specie umana, il modo di ritagliare il reale include la cultura. Ma come spiega il matematico ed epistemologo Giuseppe Longo, ricercatore all’École normale supérieure di Parigi, gli artefatti e, soprattutto, la nuova tecnologia informatica che ha cambiato radicalmente il nostro mondo a partire dagli anni ottanta ritagliano il reale mediante il prelievo di una serie di punti con cui costruiscono un modello. L’artefatto agisce quindi come se esistesse un reale attraversato da “contorni puntinati da ritagliare”, che producono tra l’altro quell’effetto di realismo ingenuo così forte nella nostra epoca. È in tal senso che i biologi, come gli psicologi comportamentali, o i pedagogisti delle “competenze”, tenderanno implicitamente a pensare di avere a che fare, nel loro lavoro, con fatti concreti (molecole, comportamenti, competenze ecc.) che esistono al di là di qualunque modello o griglia di analisi.
Con ciò non voglio sottintendere che, al contrario, fatti e particelle sarebbero cose che esistono “per sé”, né ancor meno che si tratterebbe di creazioni della soggettività o di semplici “teorie”, come hanno creduto i teorici della “svolta linguistica” degli anni cinquanta. I fatti sono piuttosto risposte concrete a certi tipi di domande e ricevono quindi un’esistenza obiettiva a partire dal fatto dell’oggettivizzazione contestuale. Tale contestualizzazione è ideologicamente soppressa dall’artefatto e dai modelli matematici che lo fondano. Questi modelli presuppongono inoltre la teoria dell’informazione, con la credenza secondo la quale “tutto è informazione” codificata, decodificabile e comprensibile.
Il modo di ritagliare il reale da parte del vivente e della cultura non procede invece secondo un meccanismo di questo tipo. Perché, come si è detto, la co-evoluzione e co-costruzione del mondo, della natura e della cultura implicano lo sviluppo di legami organici. Tali legami collegano tra loro meccanismi complessi che producono insiemi integrati. Quando un organismo vivente – e, nel caso dell’umano, una cultura – ritaglia delle forme nel loro contesto, questo ritaglio (che non corrisponde mai alla captazione ingenua di forme esistenti esteriormente, come spiega il biologo Francisco Varela), contrariamente all’artefatto, trascina in qualche modo con sé lo sfondo da cui emerge. Per dirla con un concetto sviluppato in un’opera precedente: nell’informazione raccolta dalle forme organiche (vivente e cultura), ne va anche di un’“informazione non codificata”.
Il fenomeno di artificializzazione risiede nella rimozione della complessità del vivente
L’artefatto, invece, semplifica la complessità del reale e implica un riduzionismo. Prodotto dell’artificializzazione del mondo, il realismo “ingenuo” non capisce l’importanza del contesto, della territorializzazione. Crede nell’esistenza oggettiva di elementi semplici, mossi da processi bottom up che vanno dal semplice al complesso. Non vede che i processi organici non procedono per aggregazione. Nei processi unicamente bottom up, ciò che esiste “realmente” non sono che le parti incastrabili in modo ascendente per formare un aggregato che funzioni, un artefatto. Nei fenomeni organici, biologici e culturali, i legami hanno un’esistenza a egual titolo delle parti, “catturate” per e attraverso un funzionamento globale. In ogni processo organico c’è un’articolazione bottom up/top down.
Il fenomeno di artificializzazione risiede quindi nell’oblio, ovvero nella rimozione, della complessità del vivente (e della cultura), che ha come effetto un “allontanamento” del vivente da se stesso: o, se si preferisce, una perdita di potenza. Prendiamo l’esempio dei nuovi braccialetti medici. Indossato dal paziente, il braccialetto invia verso un satellite una serie di informazioni sullo stato del suo metabolismo: tensione arteriosa, glicemia, tasso di molecole di un farmaco nel sangue ecc. Il satellite invia a sua volta l’informazione a un centro medico dove degli artefatti valutano, secondo modelli standard, i dati che giungono. La risposta arriva sul braccialetto, comunicando alla persona se la sua salute va meglio o, in caso contrario, indicando il percorso da seguire per affrontare il suo “problema”. La prima conseguenza di tali circuiti è che la persona si distacca da qualunque “informazione non codificata” prodotta da meccanismi proprio-percettivi, che arriverebbero alla coscienza mediante transduzione. La persona non ha “più notizie” di se stessa perché, anziché sommarsi alla possibilità di avere accesso a delle percezioni propriocettive, la potenza dell’informazione codificata artificiale le eclissa.
Quando ci si interessa in modo più esteso a questo fenomeno di obliterazione di alcune dimensioni dell’essere, ci si può ricordare che il Dna considerato come non codificante è stato a lungo definito dai biologi “Dna spazzatura”: ma si tratta sorprendentemente di oltre il 98% del Dna!
L’artefatto semplifica la complessità del reale implicando un riduzionismo
Allo stesso modo, la maggior parte dei comportamenti animali e delle dimensioni della cultura appare in questa cartografia utilitarista come inutile se non nefasta, semplicemente perché non si può intendere in modo utilitaristico e trasparente. I corpi, le culture, gli ecosistemi, così come il nostro comportamento quotidiano, ritmati peraltro da riti non comprensibili in termini utilitaristici, restano allora in “giacenza” e di conseguenza in “sofferenza”.
Nell’artificializzazione crescente del mondo, che non conosce fino a questo momento nessun meccanismo di autoregolazione organica, il vivente, ivi comprese le forme culturali in cui si manifesta, si trova sempre più esiliato da se stesso. Se la modernità aveva esiliato l’uomo dalla natura, pretendendo di renderlo “maestro e padrone” di quest’ultima, la postmodernità implica un fenomeno di cattura globale del vivente a beneficio di macro-organismi autonomizzati che funzionano secondo i principi di deregolamentazione propri dell’artefatto. Nessuna regolamentazione limitativa della sua potenza sembra in effetti interiormente necessaria all’artefatto – che anzi esiste proprio contro ogni limite. Ma l’autoregolazione e l’incorporazione organica del negativo sono condizioni fondamentali dell’esistenza umana. È per questo che due potenze di natura tanto differente hanno oggi difficoltà a coesistere.
Lungi da me tuttavia l’idea che, nelle sofferenze postmoderne, una vita finta verrebbe sempre più a sostituire una supposta “vita reale”. La vita catturata dal mondo dell’informazione codificata non è virtuale, ma ben reale. Soltanto che si struttura in maniera diversa, ovvero in maniera opposta alla vita organica di tipo biologico o culturale. Come si è visto, la postmodernità non fa che decostruire i legami di tipo organico: attraverso il tipo di modellizzazione che mette in atto, riorganizza una vita smembrata in base ai bisogni dei macro-organismi economici (multinazionali, Fmi, Banca mondiale ecc.). Questa riorganizzazione tuttavia tralascia in buona parte la base più profonda dell’organismo. L’informazione non codificata, lo spazio infinito tra i punti, corrispondente ad esempio a processi corporei dell’ecosistema o a dimensioni ineffabili della cultura, restano, come si è detto, in “giacenza” e in “sofferenza”.
Da un punto di vista psicologico, questa artificializzazione della vita ha come conseguenza la desoggettivazione dell’uomo. Senza giungere alla radicalità hegeliana – eliminare la soggettività di qualcuno distrugge la persona –, la delega delle funzioni del vivente all’artefatto svuota l’individuo della modernità della sua interiorità. I processi di delega delle funzioni non hanno nulla di nuovo. Sono ciò che caratterizza l’evoluzione della vita da quando è apparsa sulla Terra. Nella coevoluzione delle specie e degli ecosistemi, alcune specie delegano certe funzioni ad altre per far evolvere il proprio organismo sviluppando nuove funzioni: è l’esempio della coevoluzione dell’antenato del cane e i primi umanoidi. Il futuro uomo delega (e perde) delle funzioni e capacità olfattive, uditive ecc., perché “se ne occupa” il cane. E quest’ultimo delega funzioni di controllo e comprensione perché se ne fa carico l’uomo. Tale delega consente a ciascuna delle due specie di sviluppare nuove funzioni – con la conseguenza, almeno una delle conseguenze, che non c’è cane senza uomo, né uomo senza cane. Allo stesso modo, funzioni proprie dell’uomo saranno delegate alla macchina, che a sua volta scolpirà quest’ultimo a sua immagine.
[…] Come scrivono Hélène Molinari e Gregory Pascon, due degli animatori della rivista belga “C4”, noi non siamo più nel Big Brother, ma siamo passati al “Big Data”: “Ciò che si nasconde dietro a questo concetto è il fatto che questo tipo di governo non si fonda sull’individuo e la sorveglianza, ma sulla tracciabilità e il profilo”. Attraverso il prelievo, algoritmicamente regolato, dei dati, sono tracciati dei profili che fanno di ciascuno di noi un nodo statistico. Ma una volta che questo profilo è definito, noi saremo trattati, sollecitati e motivati in funzione di questo. Nella modellizzazione mediante “arrotondamento digitale”, tutto avviene come se a ciascuna persona venissero rubati degli elementi di singolarità…
A questo punto è giunto il momento di porre la questione di sapere in che misura le psicoterapie esistenti, e in particolare le due correnti principali, la psicoanalisi e il comportamentismo, siano o meno in grado di apportare una risposta alle sfide soggiacenti alle nuove sofferenze. Se nel caso delle terapie comportamentali emerge rapidamente come queste non costituiscano una resistenza all’artificializzazione del vivente, ma ne rinforzino anzi il principio attivo, cosa ne è della psicoanalisi? Fondata sulla concezione di strutture territorializzate – ciò che si è chiamato “psicologia del profondo” –, questo modo terapeutico oggi più che secolare è armato per resistere alla decostruzione postmoderna? La sua difesa di un supposto soggetto dell’inconscio (connesso a delle strutture simboliche) consente di resistere all’individualismo e alla normalizzazione in atto nel nostro presente?