Bisogna inerpicarsi fino a Succiso o a Cerreto Alpi – nel cuore delle “aree interne” dell’appennino tosco emiliano – per ricercare il sacro graal del platform cooperativism custodito in “cooperative paese” dalla ragione sociale vagamente fantasy come “Valle dei Cavalieri” e “I briganti di Cerreto”? Forse sì, in attesa che anche negli spazi digitali dell’on demand economy si definisca con maggiore precisione il perimetro di un’economia autenticamente collaborativa, capace di portare a maturazione modelli dove il carattere cooperativo si intravede, per ora, nelle esigenze di tutela dei diritti (sul lato dell’offerta) e di partecipazione alla gestione (in particolare sul lato della domanda).
È solo il primo passaggio di un percorso che, come da manuale, parte dall’advocacy sui bisogni per poi giungere, auspicabilmente, a un cooperare autentico che traguarda le “piattaforme rivendicative” giungendo a condividere mezzi e fini dell’azione economica.
Sono dunque ricorsi storici con l’unica novità, relativa peraltro, dettata dalla natura virtuale dello spazio cooperativo? Non proprio. Le cooperative comunitarie dell’appennino – e di altre aree fragili, periferie urbane comprese – sono rilevanti perché segnano, con la loro esperienza, uno scarto significativo anche all’interno dell’economia sociale, ovvero del loro ambiente istituzionale di riferimento.
Il loro carattere di autenticità è visibile in quanto imprese nate da un gruppo di pionieri che ha deciso d’investire nella propria comunità per produrre valore aggiunto comunitario, ossia un profitto capace di generare occupazione e di rigenerare la dimensione pubblica.
Una imprenditorialità che che si fa Stato rigenerando il carattere meritorio di servizi pubblici come mobilitá, istruzione, servizi sociali e si fa mercato per la capacità di riconoscere e di risvegliare risorse territoriali dormienti (culturali, ambientali, enogastronomiche, ecc.) che costituiscono la base per riattivare lo sviluppo locale. Sono inoltre organizzazioni coesive, in questo senso autenticamente cooperative, in cui l’input della produzione del valore é il desiderio di alcuni di rendere viva e operosa la comunità.
Conta relativamente il fatto che si tratti di poche esperienze – poche decine secondo le più recenti indagini – perché la loro massa critica si misura guardando a un potenziale ancora inespresso di nuovo attivismo civico chiamato a scalare la dimensione economica attraverso modelli sui generis di imprenditorialità. E inoltre perché, per quanto in divenire, queste esperienze assumono un carattere paradigmatico che le identifica come i veicoli attraverso cui compiere la transizione verso nuovi assetti economici e sociali.
Stesso destino di altre soggettività ibride – dalle startup innovative alle imprese coesive fino ai distretti dell’economia solidale – che pur nella diversità di approccio, contesto, percorso, sono comunque, a modo loro, emblematiche di una trasformazione paradigmatica che, in estrema sintesi, non coincide con nulla ma interseca tutto: dai modelli di consumo al welfare, dalla tutela ambientale alla produzione culturale, ecc.
Ecco perché intorno alla “scuola di cooperazione di comunità” promossa dall’Alleanza delle Cooperative Italiane e dalla Regione Emilia-Romagna sta prendendo forma un ecosistema atipico rispetto a quello coinvolto in iniziative simili e solitamente costituito per prossimità territoriale e affinità del modello organizzativo. Alle due tappe del corso erano presenti, da mezza e più Italia, amministratori pubblici, attivisti dei beni comuni, rappresentanti di federazioni cooperative, esponenti del terzo settore, imprenditori agrituristici, startupper alla ricerca della loro “vocazione sociale”. La tipica community dell’innovazione sociale: variegata, multi-localizzata, coesa rispetto alla capacità di risposta a “societal challenges” e orientata al cambiamento, in particolare a livello organizzativo e di architettura dei network.
L’attenzione intorno alle cooperative di comunità si concentra intorno a una molteplicità di temi. Consente ad esempio di osservare da vicino processi di resilienza innescati da shock che rompono non solo gli assetti idrogeologici, ma anche le routine dell’economia, delle reti sociali e del governo territoriale.
Queste cooperative, posizionabili esclusivamente lungo filiere e non in precisi settori di attività, mettono inoltre in gioco quelli che Richard Sennett chiama “piaceri, rituali e politiche” di partecipazione da parte di una pluralità di attori che spinge oltre il mutualismo classico – ormai in crisi avanzata – fondato su elementi di omogeneità di bisogni/interessi e matrici ideologico/culturali. Ma l’elemento che più spicca e che può rappresentare un potente fattore di fertilizzazione con il cooperativismo di nuova generazione è rappresentato dall’insieme di risorse che costituiscono il patrimonio di queste iniziative.
Nelle cooperative di comunità il turnover economico è trascurabile in termini assoluti (anche se spesso significativo rispetto al contesto in cui operano) e la dimensione della governance è tutt’altro che assemblearista e più da minoranza attiva. Ma è il dato patrimoniale che in queste esperienze si configura come un autentico community asset. Una risorsa comunitaria – tangibile e intangibile – la cui regolazione trasforma queste realtà in abilitatori di economie e socialità che si collocano dentro e soprattutto fuori i loro confini organizzativi e societari.
Sono, come sostiene Giovanni Teneggi che di queste cooperative è animatore, hub che non si limitano, come nel passato, a mettere a regime aspirazioni legate a obiettivi interesse generale già preformati da appartenenze naturali (famiglia, territorio, organismi intermedi), ma agiscono piuttosto sul self interest da spiazzamento per il danno ambientale, la chiusura del bar, il ridimensionamento del trasporto pubblico, etc.
La formazione dell’asset comunitario segue un percorso non lineare, ma intercetta, quasi sempre, alcune polarità. Un primo elemento riguarda la ricerca di un luogo di relazioni. Un passaggio che potrebbe essere banalizzato, riducendolo a una mera questione di fabbisogno di spazi, ma in realtà l’obiettivo è di alimentare un flusso di scambi (non solo di mercato e non solo formali) attraverso cui generare opportunità (ad esempio di lavoro) e di senso (fare cose in modo diverso per cambiare). Un secondo meccanismo riguarda la formazione di economie, anche queste “di luogo”.
A contare, in molti casi, non sono i core-business, ma le esternalità, cioè le economie che scaturiscono, anche in modo inaspettato, da iniziative diverse. È vero che queste esternalità, come sostiene Lorenzo Sacconi, non sono pianificabili e si costituiscono, riprendendo John Rawls, “sotto un velo di ignoranza”, ma comunque esistono e sono rilevanti per la sostenibilità delle iniziative e dunque servono modelli gestionali che le abilitino e le valorizzino.
Infine una terza polarità consiste nella costruzione e gestione di un sistema di norme che regoli la fruizione dell’infrastruttura comunitaria, cercando di non discriminarne l’accesso ma anche di limitare il sovrasfruttamento delle risorse disponibili attraverso essa.
Informalità che alimenta la cooperazione, economie basate su spillover, governance inclusiva e modulata sui beneficiari. In effetti le cooperative di comunità viste dal loro patrimonio assomigliano molto a un commons e poco importa che si tratti di una struttura polifunzionale che ospita, bar, ristorante, negozio di alimentari o di competenze immateriali attraverso le quali si veicolano le vocazioni del territorio alimentando una nuova offerta turistica (magari rivolta, in primis, a coloro che la comunità l’hanno dovuta/voluta abbandonare).
Sono, al fondo, organizzazioni autopoietiche, capaci cioè di ridefinire costantemente loro stesse nella misura in cui, come sostiene Anna Grandori, riconoscono una natura “costituzionale” al loro patrimonio, identificando un nucleo stabile di norme che regolano l’accesso a contenuti e risorse di uso e manutenzione comune. Un insegnamento che, forse, può accelerare il percorso verso un platform cooperativism davvero compiuto.