A inizio 2003 i giornali di Van Horn, Contea di Culberson, Texas, raccontarono di una serie di ricche offerte per acquistare 70.000 ettari di terreno da alcuni ostinati possidenti di zona. Di stravagante c’era che non si conoscevano né l’identità né le ragioni del compratore. In fondo da quelle parti il petrolio lo si era già cercato senza frutti, perché mai tanto mistero? Formalizzate le compravendite, i giornalisti si dimenticarono comunque in fretta della vicenda e tornarono a occuparsi di altro. Almeno fino a quando, due anni più tardi, l’acquirente non rivelò la sua identità e i suoi piani in un’intervista esclusiva con il Van Horn Advocate, il settimanale di Van Horn: duemila anime sparse lungo i bordi di una strada che taglia il deserto. Si trattava di un miliardario che rispondeva a un nome all’epoca ancora non notissimo. Undici anni prima aveva fondato un’azienda molto fortunata e ora si trovava lì, in quel trapezio ai limiti del Texas occidentale, per gettare le fondamenta di un’altra impresa, che nella sua testa esisteva già da tempo. Si chiamava Blue Origin, adottava come motto l’espressione latina Gradatim Ferociter e, nel giro di un ventennio, sarebbe stata una delle prime compagnie private a portare cose e persone ben oltre i limiti della stratosfera. Viatico – disse – a una “stabile presenza umana nello spazio”. A partire proprio da lì, dai paraggi di Van Horn.
Queste cose il miliardario le raccontò a Larry Simpson – proprietario, direttore e e unico giornalista del Van Horn Advocate – in un giorno di gennaio del 2005, entrando di punto in bianco nello scarno ufficio della rivista e presentandosi con un semplice “Hi, I’m Jeff Bezos”. Tra quelle che omise: per esempio che Blue Origin era il primo passo verso un sogno che coltivava dai tempi del liceo, il sogno di poter un giorno evacuare la terra e farne un parco di divertimenti.
Abitare a Van Horn
Ho incontrato questa storia un po’ alla Kurt Vonnegut molti mesi fa mentre ricercavo per un articolo sulla logistica di Amazon, l’azienda che in un ventennio ha reso Jeff Bezos il quinto uomo più ricco del pianeta con un patrimonio personale di quasi 50 miliardi di dollari. La racconto qui, all’inizio di un pezzo sui progetti di quattro delle più grandi aziende tecnologiche al mondo (tra le quali Amazon), perché, di fronte alle loro ambizioni – al modo in cui pianificano di occupare ulteriormente interi settori dell’economia, della società e della nostra esistenza – mi sembra che siamo tutti abitanti di Van Horn, Contea di Culberson, Texas. Se non ignari, quantomeno distratti.
“Tutte le nuove tecnologie possono fare il bene o il male ma io sono fondamentalmente ottimista sulla natura umana e sulla nostra possibilità di usare la tecnologia per il bene”
– Marc Zuckerberg,15 settembre 2015
GAFA
GAFA è un acronimo che ha iniziato a circolare sui giornali francesi alcuni anni fa. Sta per Google, Apple, Facebook, Amazon: i tech titans di cui mi occuperò. Il termine è apparso per la prima volta su Le Monde a fine 2012 e, come ha spiegato Alexis Delcambre, caporedattore economico del quotidiano parigino: “Non lo usiamo spesso, ma quando lo facciamo è per sottolineare che si tratta di un tema sensibile, come le politiche fiscali di queste compagnie o il trattamento dei dati personali”. In breve tempo GAFA è stato adottato anche da altri media e dalle stesse istituzioni europee che stanno cercando, con alterne vicende, di processare Google per violazione delle norme antitrust. Negli Stati Uniti invece l’acronimo viene perlopiù giudicato l’ennesimo rigurgito di revanscismo europeo, quando non un tentativo politico di delegittimazione per agevolare la nascita di controparti locali ancora tutte da immaginare.
Alcuni numeri
Delle quattro lettere che compongono la sigla, la più cospicua è la A di Apple. Con un valore d’impresa di 670 miliardi di dollari, il colosso di Cupertino guarda tutti dall’alto. Seguono Google a 354 e, più staccate,Facebook a 245 e Amazon a 240. Il valore complessivo delle loro capitalizzazioni azionarie invece è di 1.700 miliardi di dollari, ovvero un 30% del totale (5,4 miliardi) delle altre 96 imprese del Nasdaq 100, trecento milioni di dollari sopra il PIL della Corea del Sud o della Spagna. Se questi 1.700 miliardi fossero magicamente trasformati in denaro liquido e distribuiti tra i 300.000 dipendenti a tempo pieno di queste aziende, ognuno di essi si sveglierebbe più ricco di quasi sei milioni di dollari. Nessuno di questi dati, per quanto impressionanti, comunque misura la liquidità. Da tempo quella di Apple si aggira intorno ai 200 miliardi di dollari (tradotta in PIL, ne farebbe il 53esimo paese più ricco al mondo subito prima del Perù), tanto che nel 2012 un investitore chiese, senza alcuna ironia, a Tim Cook se avesse mai pensato di“ comprare” la Grecia. La risposta di Cook fu altrettanto seria: “Abbiamo considerato diverse cose ma non quella”.