Recentemente, a Firenze, in un argine dell’Arno vicino al ponte Amerigo Vespucci, è apparsa, in grandi caratteri, la scritta “no gentrificazione”. Speriamo che i turisti inglesi e americani che visitano l’Italia non la prendano troppo sul serio e non pensino che non vi sono differenze fra il loro e il nostro paese. Nonostante che da noi l’anglomania furoreggi da tempo, nonostante che il numero degli anglicismi dei quali ci serviamo sia enormemente cresciuto e non smetta di crescere, il termine gentrification continua ad esserci estraneo. Del tutto assente nel linguaggio comune, esso compare molto raramente anche nei saggi dei sociologi, degli economisti, degli urbanisti, degli architetti o dei geografi italiani. Purtroppo. Purtroppo perché, sostiene in questo bel libro Giovanni Semi (Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, pp. 237, € 22, Il Mulino, Bologna 2015), è difficile capire come siano cambiate le città italiane e quelle dei paesi occidentali senza sapere cosa è la gentrification.
In inglese questo sostantivo è stato introdotto mezzo secolo fa da una studiosa immigrata a Londra, la sociologa marxista tedesca Ruth Glass. “Ad uno ad uno – scrisse nel 1963 questa studiosa – molti dei quartieri operai di Londra sono stati invasi dalle classi medie (…). Piccole, modeste case – due stanze al primo piano, due al piano terra – sono state rimesse a posto alla scadenza del contratto di affitto e sono diventate residenze eleganti e costose. Case vittoriane ben più grandi, declassate nel periodo precedente – divise in appartamenti o in stanze ammobiliate – sono state riportate al livello di un tempo (…). Quando questo processo di gentrification inizia in un distretto, esso va avanti rapidamente finché tutti o la maggior parte degli operai che occupano un’abitazione sono spostati fuori e la natura sociale del quartiere muta”. Ruth Glass coniò questo termine per indicare l’ascesa di una nuova gentry urbana, ricordando, con un po’ di ironia, la nobiltà minore, agricola, che nell’Inghilterra del Sei-Settecento era collocata fra l’aristocrazia e gli altri ceti. Ma da allora esso è entrato nella letteratura scientifica per descrivere e cercare di spiegare quei frequenti e dolorosi processi che hanno luogo nelle città: l’uscita, da alcune aree, di famiglie a basso livello di reddito, la ristrutturazione delle case nelle quali abitavano e l’entrata di persone appartenenti ai ceti medio alti. Nel corso del tempo, l’uso di questo concetto è cambiato e, recentemente, esso è stato definito da alcuni studiosi come “la produzione di spazio urbano per utenti sempre più affluenti”.
Il libro che Giovanni Semi dedica a questo tema è al tempo stesso un’introduzione per coloro che non ne sanno niente e una guida per quelli che vogliono approfondire le loro conoscenze. L’autore è un sociologo quarantenne (dunque giovanissimo, o almeno giovane, secondo la definizione oggi vigente nell’università italiana), che si è formato professionalmente facendo ricerca etnografica, cioè vivendo per un po’ di tempo in un quartiere (Porta Palazzo a Torino) molto diverso da quello in cui ha passato l’infanzia e l’adolescenza, frequentando alcuni dei suoi abitanti, osservando come agiscono e interagiscono, studiando il tessuto sociale che si forma e riforma quotidianamente. Come i suoi predecessori, si è occupato allora soprattutto degli strati marginali della popolazione: gli immigrati. È da quella esperienza che è nato il suo interesse per la gentrification, dalle osservazioni fatte allora nelle vie rimesse a nuovo intorno a piazza Emanuele Filiberto.