I giornali in questi giorni rilanciano la notizia rivelata da Mark Zuckerberg che Facebook sta lavorando per introdurre un nuovo tasto per esprimere “empatia”, sostiene il suo fondatore, in quei casi dove non ce la sentiamo di mettere mi piace a una storia triste: “quello che abbiamo capito in questi anni è che le persone non vogliono un tasto per esprimere il proprio dissenso o voto negativo nei confronti di qualcun altro, quello che vogliono è essere capaci di esprimere empatia”. Molti giornali hanno tradotto semplicisticamente “Facebook metterà il tasto Non mi piace”. Che sia un tasto per esprimere uno stato emotivo negativo (dubito che Zuckerberg permetta a chiunque di esprimersi negativamente verso un brand) o uno di natura empatica, vedo due tipi di problemi in questa modifica del design della piattaforma.
Primo problema: l’unico risultato che produrrà è che gli investitori commerciali avranno a disposizione dati ancora più precisi sul nostro comportamento dentro Facebook e su cosa ci piace oppure no. Per Facebook avere a disposizione dati ancora più precisi sui gusti e sulle passioni dei propri utenti significa poter predire con maggiore precisione i loro comportamenti di consumo. La “predictability”, ovvero la capacità dei media commerciali (da quando esiste la radio commerciale negli Stati Uniti) di vendere ai propri investitori pubblicitari un ritratto sempre più preciso dei gusti del pubblico che sono stati capaci di attrarre attraverso la trasmissione dei propri contenuti, è sempre stato un elemento portante dell’economia dei media. Per Hollywood conoscere in anticipo come reagiranno gli spettatori di fronte a un film significa poter evitare grosse perdite.
Un pubblico la cui attenzione verso determinati contenuti è misurabile, è anche “prevedibile” e meglio vendibile sul mercato della pubblicità. Lo stesso vale per Facebook, che però sta operando una appropriazione del valore delle audience a un livello molto più “bio-politico” rispetto ai precedenti media commerciali. Quello di cui Facebook si appropria per generare profitto non è più — come sostenevano i critici marxisti della tv degli anni settanta comparando il lavoro del pubblico di fronte alla tv al lavoro dell’operaio in fabbrica — l’attenzione dei propri utenti, ma le loro passioni e i loro stati emotivi. Se l’attenzione era la merce di scambio dei media del novecento, oggi la merce di Facebook, ciò che Facebook vende per poter guadagnare, sono i dati relativi agli stati emotivi, l’affettività generale prodotta dagli utenti. E’ la passione degli utenti verso un brand o una notizia (o entrambi), espressa attraverso like (e ora anche “dislike”) ad essere misurata attraverso gli algoritmi di Facebook ed essere rivenduta agli investitori pubblicitari sotto forma di dati sui gusti dei propri utenti.
Facciamo un esempio: secondo l’algoritmo di Facebook, se io mi appassiono ai post di un amico e continuo a cliccare mi piace sulle sue pubblicazioni, è probabile che continui a farlo anche in futuro. L’intensità delle mie interazioni passate con i post del mio amico verrà usata dall’algoritmo per calcolare la probabilità che io continui a interagire con lui in futuro e questo mio possibile interesse futuro verrà usato da Facebook per decidere quali contenuti saranno più visibili sulla mia bacheca. Se al profilo del mio amico sostituite quello di un brand (un prodotto, un’emittente radiofonica, un giornale…), avrete la misura del valore commerciale delle manifestazioni d’affetto che esprimo quotidianamente su Facebook. L’algoritmo mi studia, apprende a conoscermi e impara a prevedere i miei interessi futuri, mettendomi in connessione con cluster di messaggi di persone che conosco e di brand con i quali risulto essere statisticamente omogeneo, in base ai miei comportamenti passati.
Il tasto “dislike”o simili, aggiungerà una sfumatura in più ai dati raccolti da Facebook e accrescerà la sua capacità di rendere “prevedibili” i nostri comportamenti, attraverso algoritmi che impareranno dai nostri click cosa ci piace e cosa ci fa sentire tristi, associando il nostro profilo a un determinato set di brand, partiti politici, gusti culturali. Quando Zuckerberg sogna un mondo in cui tutti siano connessi, sogna un mondo dove la società quotata in borsa Facebook ltd. avrà a disposizione un profilo di consumo prevedibile per ognuno di noi. Se Facebook è di fatto una piattaforma per il management dell’affettività e della socialità, allora vale anche per lui uno degli assiomi delle teorie manageriali: “what gets measured gets managed”: tutto quello che si può misurare, si può gestire. Questo in sintesi è quello che sosteniamo Adam Arvidsson ed io in un articolo scritto assieme, prima della notizia del “dislike” di Facebook, intitolato: “Valuing Audience Passions” e che potete leggere qui.