All’università Columbia di New York, una delle più prestigiose al mondo, molti studenti stanno patendo la fame. Letteralmente. Schiacciati dalle rette insostenibili, dal costo della vita newyorchese, dai debiti. Così, mossa dalla compassione, una startup che era nata per donare cibo ai senzatetto permetterà agli allievi benestanti di condividere i buoni pasto con i colleghi meno fortunati. Succede in un’istituzione-colosso che nel 2014 ha ricevuto 9,2 miliardi di dollari in donazioni, ha un patrimonio di oltre 16 miliardi e ha mediamente oltre quattro miliardi di ricavi l’anno. L’idea è stata partorita dai volenterosi rappresentanti del corpo studentesco, di concerto con l’università.
«È stato portato alla nostra attenzione il fatto che molti studenti non hanno da mangiare», si legge nella newsletter inviata il 9 settembre dal presidente del Columbia College Student Council, Ben Makansi, e dal vice responsabile del regolamento interno, Viv Ramakrishnan. Nella lettera annunciano «un approccio duale» per affrontare «l’insicurezza alimentare nel campus» (food insecurity è il pudico termine tecnico usato dagli amministratori, ndr). Da un lato, una app che consentirà agli studenti più ricchi di cedere i propri buoni pasto ai più poveri («Come un Uber per la condivisione del cibo», l’hanno definita). Dall’altro, una banca di buoni pasto («Emergency Meal Fund») accumulati grazie a donazioni private. Un Kickstarter per gli affamati? Il duo non ha usato questa metafora, anche se ci sembra la più ovvia.
Ma come funziona il sistema dei buoni pasto in America? All’inizio di ogni semestre, gli studenti comprano blocchetti di questi che in gergo si chiamano «meal swipes», che consentono di mangiare presso mense universitarie, ristoranti e bar convenzionati ad un prezzo leggermente scontato. Il tutto gestito da aziende di catering, spesso private, per un giro d’affari di miliardi di dollari.
Nel 2013, tre matricole della Columbia avevano fondato una società, Swipes for Change, che voleva dare la possibilità, a chi lo volesse, di convertire i buoni pasto inutilizzati in porzioni di cibo di eguale valore da donare alle associazioni caritatevoli del quartiere. E ce ne sono tantissimi di poveri nell’Upper West Side, un’area di Manhattan che sarebbe piuttosto anonima se non fosse che la Columbia vi possiede il suo campus principale, oltre settemila appartamenti e una lista infinita di edifici. Qui i figli dell’élite finanziaria globale convivono, o sarebbe meglio dire si sfiorano, con gli ultimi della scala sociale: si vedono studentesse indiane con stivali di marca Ugg e felpa d’ordinanza ritirare pizze da 20 dollari dal ristorante Bettola, tra una sessione d’esame e l’altra, passeggiando tra vecchi immigrati di origine latina e i pochi scampoli di presenza afro-americana nella zona. Un’iniziativa dettata dalla pietà, dunque. O forse dai sensi di colpa.
Ma oggi, con un mercato del lavoro meno vivace d’un tempo, una metropoli dispendiosa come poche, affitti alle stelle e soprattutto le stratosferiche tasse universitarie (alla Columbia mediamente superano i 60 mila dollari l’anno) molti studenti sono finiti sul lastrico, nonostante le borse di studio che pure non mancano. E per paura di dover chiedere aiuto ai genitori si sentono costretti a saltare il pranzo e a volte anche la cena. Un gruppo Facebook, creato a marzo, che raccoglieva le testimonianze dei più disagiati tra gli iscritti, in pochi mesi è stato sommerso dalle storie di chi si barcamena tra lavoretti saltuari per arrotondare, mezzucci per arrangiarsi, e la prospettiva di quarant’anni di debiti. Non mancano, per intenderci, suggerimenti su come scavalcare i tornelli d’ingresso alle mense o rovistare nell’immondizia.
Un simile squallore non è prerogativa della Columbia. Nel 2005 aveva fatto scandalo la notizia che ad Harvard, un’altra gemma della cosiddetta Ivy League, alcune studentesse si erano messe a lavorare come donne di servizio per pagarsi la retta, rifacendo i letti e rassettando le camere degli studenti più facoltosi. Non molto tempo fa, poi, ci era capitato d’incontrare studenti dell’altrettanto prestigiosa Cornell, che campavano grazie ai food stamps — i buoni spesa per gli indigenti.
Un po’ come succede con i dipendenti Walmart, per intenderci, con la differenza che qui si tratta di alta borghesia dalla prole affamata. Uno scenario tutt’altro che raro, negli Stati Uniti.
Eppure, quando un ateneo che manovra più soldi di una vecchia finanziaria italiana, che ha più donazioni di qualunque altra università in America, tranne dieci – certo, niente a confronto di Harvard coi suoi 20 miliardi – usa Uber come una metafora di generosità, viene da chiedersi perché nessuno si sia indignato per questa satira grottesca. E non solo perché la nota azienda di car-sharing fa qualcosa di profondamente diverso dalla carità (come un po’ tutte le startup della cosiddetta sharing-economy, che spacciano i mercanteggiamenti della borghesia in crisi per «condivisione»). Ma perché l’istituzione che dovrebbe garantire uno status paritario tra studenti si defilerebbe, lasciando il posto ad un paternalistico welfare tra individui mascherato da imprenditoria sociale.
Come se non bastasse, sarebbe una soluzione oltremodo dispendiosa. I meal swipes alla Columbia costano tra i dieci e i 12 dollari a pasto. Fanno almeno 20 dollari al giorno per studente. New York è una città proibitiva ma, se proprio si volesse aiutare chi ha bisogno, non sarebbe difficile mettere insieme un cornetto, un succo di frutta e un caffè per cinque dollari nelle umili strade di Morningside Heights, poco più a nord dell’ateneo.
Un bagel con lattuga, pancetta e pomodoro costa tipicamente tre dollari. Chi ci guadagnerebbe dunque da questo approccio, se non l’azienda di catering della Columbia? E questo ci riporta a quanto pensavamo anni fa della mensa bocconiana, a Milano: che cioè le università private funzionano un po’ come i Paesi socialisti – ti fanno mettere in fila per del cibo di seconda qualità, che non hai scelto o prodotto tu, che costa più di quanto costerebbe sul mercato.
Lasciamo perdere però i dettagli tecnici. La vera questione di una strategia simile è tutta politica, inutile girarci intorno: com’è possibile che, con tutti i soldi di cui dispongono, la Columbia e gli altri ricchissimi atenei non riescono a garantire refezioni gratuite, senza costi aggiuntivi? Ebbene le università americane si trovano ad affrontare, ormai da molti anni, una first generation, quella dei figli di immigrati latini, asiatici e africani, che riesce ad accedere all’istruzione superiore con risultati strepitosi ma non ha genitori ricchi alle spalle, ed è dunque, solitamente, più politicizzata e meno disposta alle vessazioni che in passato (se consideriamo il passato gli Ottanta e i Novanta, poiché il passato remoto narra una storia diversa: nel ’68 la Columbia fu occupata in protesta contro la guerra in Vietnam). D’altro canto, di fronte alle critiche per le rette stellari, e non volendo ricorrere ad una qualche forma di salario per gli studenti (come avviene in molte parti d’Europa), le scuole allora ricorrono ad una subdola forma di tassazione indiretta, facendo pagare tutta una serie di servizi «extra», ma che extra non dovrebbero essere.
Dunque, che si deve pensare di questo mutuo soccorso al tempo di Tinder? Che il ricorso alla tecnologia, ormai spacciato da molti intellettuali come l’unica cura per le storture sociali, è in questo caso particolarmente odioso, perché mantiene di fatto una sorta di divisione castale tra studenti. E piuttosto che ridurre il costo effettivo della mensa, l’università scarica il problema su una startup. Tutti, secondo i piani, dovrebbero essere soddisfatti: gli amministratori — che si liberano da un grattacapo — e i meno abbienti che, sottomessi all’elemosina dei ricchi, alla loro eroica empatia, alla narrazione dello sharing, avranno meno voglia di far politica, organizzarsi o protestare. Qualcuno però, nonostante i controlli polizieschi e la sorveglianza, riesce ancora a ribellarsi, e a cambiare sul serio le politiche universitarie.
È di giugno la notizia che la Columbia – primo ateneo in America – dovrà disinvestire parte dei suoi nove miliardi di fondi dal business carcerario. Proprio così: l’istituto più liberal della città possedeva 220.000 azioni del gruppo G4S, azienda leader del settore che gestisce, oltre a numerose prigioni, centri di detenzione per immigrati e fette del confine militarizzato col Messico. A scoprirlo sono stati, quasi per caso, l’anno scorso, degli studenti giovanissimi e dal cognome poco yankee. Va bene che i loro soldi non li avrebbero salvati dalla fame o dal cappio dei debiti; ma profittare pure dell’incarcerazione di massa, questo no, non gli stava bene.
da Il manifesto