Il lavoro è fatica, si sa che nessuno regala nulla. È sacrificio e dedizione, d’accordo. È passione e curiosità, certo. È voglia di innovare e di scoprire i propri limiti, per superarli, ovviamente. È tutto questo e molto di più perché il lavoro è sapere, è saper fare, è comunità professionale e relazioni umane. È fare progetti per il futuro immaginando di cambiare in meglio sé stessi e il mondo che ci circonda, appunto.
Là fuori infatti, il mondo che ci circonda ha regole, barriere, opportunità, limiti; gli stessi che vorremmo superare. Di quello che c’è là fuori ovvero delle condizioni di lavoro sperimentate in tempo di crisi dalle nuove generazioni di lavoratori, dai migranti, dalle donne, e delle forme di organizzazione che gli stessi soggetti si danno per costruire percorsi dignitosi in grado di contrastare la frammentazione delle carriere lavorative si parlerà nel convengno internazionale “Precarious and unrepresented. New workers facing the deficit of rights and social representation” che si terrà all’Università di Milano Bicocca (Auditorium Guido Martinotti, U12) il prossimo 16 dicembre dalle 9.00 alle 18.30.
Per comprendere la fase storica che stiamo vivendo serve comprendere come la crisi e la recessione che ne è seguita hanno aggravato la situazione generale del mercato del lavoro e, soprattutto, quella dei soggetti che erano già in maggiori difficoltà. Ci troviamo di fronte ad un mercato del lavoro progressivamente destrutturato nel quale anche le tradizionali dicotomie, come quella tra insiders e outsiders e tra lavoro dipendente e autonomo appaiono più sfocate.
Il processo di precarizzazione della forza lavoro diventa sempre più generale secondo un trend inarrestabile nel settore privato dell’economia, ma che tende a coinvolgere, in vari modi, anche il settore pubblico. Inoltre il processo di de-standardizzazione delle carriere lavorative ha un impatto particolarmente problematico sui giovani che entrano nel mercato del lavoro. La lunga crisi economica ha accentuato ulteriormente le difficoltà all’ingresso. La grande maggioranza dei nuovi lavoratori, dipendenti o autonomi o parasubordinati, è esposta a lunghi periodi di attesa e incertezza con conseguenze negative sui progetti di vita e ciò è particolarmente vero per i giovani soprattutto quelli a bassa esperienza e qualificazione professionale, esposti ai circuiti viziosi della instabilità lavorativa e del deficit di rappresentanza e tutela.
Contrariamente alle aspettative di alcuni studiosi della transizione postindustriale che hanno messo l’accento sulle potenzialità di risparmio di lavoro attivato dai cambiamenti tecnologici e parlato di “fine del lavoro”, il lavoro non sta scomparendo, ma sta diventando un’esperienza molto più eterogenea e instabile rispetto alle forme occupazionali dominanti, anche se mai maggioritarie, nella fase fordista: operai e impiegati occupati con contratti standard a tempo indeterminato nelle fabbriche e nelle grandi burocrazie pubbliche e private dei servizi e delle amministrazioni.
È questa la chiave principale per capire le difficoltà di rappresentanza e di tutela che caratterizzano il mondo del lavoro oggi. La protezione e la tutela dei lavoratori fordisti era costruita attraverso un processo di partecipazione e mobilitazione dei lavoratori che alimentava organizzazioni di rappresentanza, sindacati e associazioni professionali, che, a loro volta, consolidavano le rivendicazioni a favore dello sviluppo delle protezioni, tutele e diritti tipici del welfare capitalism. Oggi, verrebbe da chiedersi, chi e come partecipa? Chi si mobilita?
A fronte di una platea di lavoratori più vasta ma molto più eterogenea in termini di interessi e di condizioni di lavoro, sempre meno concentrata in grandi fabbriche e apparati, polarizzata in professionalità elevate e specializzate e in qualificazioni basse e mansioni esecutive, ma tutte genericamente caratterizzate da forme spinte di individualizzazione e frammentazione, la catena della rappresentanza e della protezione risulta in grandi difficoltà in tutti i diversi contesti.
Il deficit di rappresentanza e di tutela coinvolge una vasta gamma di soggetti che va dai giovani lavoratori che entrano nel mercato del lavoro a una larga maggioranza degli immigrati − per i quali precarietà e instabilità del lavoro e dell’occupazione sono spesso una condizione che si protrae a lungo nella vita lavorativa − a lavoratori a tempo determinato e stagionali in occupazioni tradizionali a tutta una serie di figure collocate in occupazioni anche di tipo nuovo nell’area dei servizi alle persone e alle imprese e nell’area della comunicazione.
Non è soltanto la debolezza sul mercato del lavoro e la scarsa qualificazione a generare difficoltà di protezione e di tutela, ma contribuiscono anche il profilo individualizzato, l’elevata competizione personale, la forte e persistente incertezza che caratterizzano molte attività lavorative autonome o parasubordinate e l’estrema eterogeneità della forza lavoro esistente oggi sul mercato.
L’eterogeneità della forza lavoro è però tutt’altro che un fatto nuovo; un fatto che va associato, in questo periodo storico e in alcune aree del pianeta, al forte ridimensionamento della classe operaia, al declino del sindacato, al superamento del modello fordista e del sistema di welfare ad esso associato e dunque alla distinzione tra insiders e outsiders.
Specie in Italia, si tratta di un fatto antico e, per rendersene conto, basta risalire alle origini del nostro sindacalismo, non basato sulla rappresentanza degli operai dell’industria, ma su quella di una forza lavoro eterogenea, in cui, dalla fine dell’Ottocento, erano parte assai importante i lavoratori agricoli. La classe operaia, in Italia, ha avuto una vita breve rispetto ai paesi di più antica industrializzazione. È dunque interessante, per capire i problemi della rappresentanza del lavoro oggi, fare un confronto con il passato.
Come ha più volte scritto Aris Accornero, il XIX secolo somiglia di più al XXI che non al XX: occorre guardare indietro per veder meglio avanti, per analizzare l’attuale eterogeneità della forza lavoro. L’eterogeneità della forza lavoro nel XIX secolo ha dato luogo a forme di rappresentanza orizzontale – le Camere del Lavoro all’inizio del Novecento – che avevano alcune caratteristiche simili a quelle del Social Unionism. Ad esse si riferisce la letteratura sul Revival of Unionism e sull’organizing: basso grado di corporativismo, legame col territorio, obiettivi anche esterni al lavoro (mensa per le famiglie, biblioteche, scuola, ecc.).
Alcune di queste caratteristiche ricompaiono in ondate successive anche dopo la seconda guerra mondiale. Già la rifondazione del sindacato ad opera delle forze politiche antifasciste è avvenuta privilegiando le strutture orizzontali (lo stesso Di Vittorio sottolineava lo scarso peso dei sindacati di categoria). Nelle politiche degli anni Cinquanta il “sindacalismo di classe” si è anche fondato sullo spendere il potere dei nuclei forti (nelle grandi fabbriche del Nord) a favore di aree deboli (ad esempio i disoccupati o i minacciati di disoccupazione).
Lo stesso “ritorno alla fabbrica” negli anni Sessanta, dopo la crisi di rappresentanza degli anni Cinquanta e con l’utilizzo dell’inchiesta operaia per entrare in contatto con i nuovi operai comuni immigrati, aveva certo lo scopo di rianimare la contrattazione aziendale bloccata e ricostruire le strutture di rappresentanza di base, ma ebbe insieme alcune caratteristiche delle campagne di organizing negli Stati Uniti di oggi. E del sindacalismo di classe affermatosi tra gli anni Settanta e Ottanta – anzitutto le politiche di egualitarismo salariale – hanno beneficiato le parti più deboli della forza lavoro, ad esempio le donne, non perché vi fosse una politica salariale ad esse mirata, ma perché erano collocate nei gradini più bassi della piramide occupazionale e della scala salariale.
Questa carrellata sulla tradizione di rappresentanza in Italia non vuole essere una agiografia del sindacato di classe – che peraltro nei suoi anni gloriosi si è limitato a rappresentare soprattutto i lavori con contratti regolari – ma il riconoscimento di una tradizione importante e che può esercitare anche oggi un’influenza significativa. Di fronte alle sfide della nuova eterogeneità nelle condizioni di vita e di lavoro gli storici e i sociologi sono dunque chiamati in causa per integrare il lavoro di giuristi ed economisti che ha prevalso negli ultimi anni.
Tra i molti invitati che animeranno il Convegno Internazionale, Ruth Milkman, (City University of New York Graduate Centre – CUNY e presidentessa dell’American Sociological Association – ASA) parlerà delle donne lavoratrici statunitensi nel recente periodo di crisi internazionale e della loro emersione come potenziale classe sociale; Maurizio Ambrosini (Università Statale di Milano) affronterà il tema dei migranti in Europa e del loro rapporto con le strutture sindacali; Enrico Pugliese (Università La Sapienza di Roma) illustrerà le strategie di risposta alla crisi da parte dei soggetti vulnerabili nel mercato del lavoro; Guglielmo Meardi (Warwick Business School) presenterà i risultati di uno studio comparativo sugli effetti della crisi in Germania e nel Regno Unito; Claudia Danani (National University of General Sarmiento and University of Buenos Aires) affronterà il tema delle basi sociali e politiche del lavoro in Argentina nel periodo compreso fra il 2003 e il 2015; Marco Giugni (Università di Ginevra) parlerà invece della disoccupazione giovanile in Europa e delle sfide che essa pone ai diversi regimi di welfare pubblico.
Questo intervento di Paolo Borghi fa parte di un serie (qui la presentazione) a cura di Marianna D’Ovidio e Roberta Marzorati sui temi urbani. Uno spazio sviluppato da cheFare in collaborazione con il dottorato UrbEur di Milano.