Il 13 novembre 2015, non è stato un giorno come un altro a Parigi; la città sotto assedio, quasi 200 vittime, il clamore mediatico non ha precedenti, i caratteri cubitali di Liberation strillavano “La Carnages de Paris”, le dichiarazioni di François Hollande non ammettono indugi, “siamo in guerra”.
Non è stato un giorno come un altro a Roma, Matteo Renzi si presenta nell’appartamento dei conservatori nei Musei Capitolini, la sala è quella degli Orazi e Curiazi, affrescata tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII secolo da Giuseppe Cesari meglio conosciuto come Cavalier d’Arpino. Un set insolito, asciutto, studiato nei dettagli, su due lati opposti le statue monumentali di Urbano VIII della bottega del Bernini e quella di Innocenzo X dell’Algardi. Al fianco di Renzi il tricolore e la bandiera dell’Unione Europea, altro dettaglio non trascurabile, in quella sala il 25 marzo 1957 fu firmato il trattato di Roma che diede vita alla Comunità europea.
Ci si chiede cosa dirà? Quali posizioni prenderà l’Italia? Renzi prende la scena con il suo solito incedere dinoccolato snocciola uno dei ragionamenti più obliqui che si ricordino: “Non ci rassegneremo al terrore: si arrenderanno prima loro“- “La bellezza è più forte della barbarie, la sfida è difficile, ma dobbiamo essere all’altezza. Dobbiamo ricordarci che siamo l’Italia”.
Non è stato un giorno come un altro in Italia, il governo mette in gioco uno stanziamento speciale, due miliardi di euro, Un miliardo in sicurezza, uno nell’identità culturale, la ricetta del minestrone ha comunque dosaggi precisi: “Per ogni euro in cybersecurity, uno in start up; per ogni investimento in polizia, uno sforzo maggiore di pulizia delle periferie, (si avete letto bene, periferie); per ogni mezzo blindato in più, un campo da calcetto; per ogni arma, un canestro nelle strade”. Il Ministro Franceschini plaude: “un investimento senza precedenti nel passato, una grande forza per il futuro”, una “svolta attesa da decenni e un grande investimento sui giovani e sul futuro del Paese”.
A memoria potrebbe essere la prima volta che nel nostro Paese, una dichiarazione del Presidente del Consiglio, associ il tema delle periferie urbane ai temi della difesa, della cultura e dell’identità nazionale. La “terapia G124” del Senatore Renzo Piano comincia a produrre i suoi effetti: concetti come rigenerazione e rammendo delle città sono entrati far parte di un comune sentire politico che innerva la retorica renziana. “Era Ora”, direte, eppure se si vuole comprendere in pieno il provvedimento (in attesa di leggere un testo ufficiale, le cifre precise e le procedure di assegnazione) è necessario porre alcune questioni.
In primo luogo si rende necessario individuare a quale soggetto amministrativo è rivolta la misura: Renzi, nella sua esposizione richiama, come destinatario le Città Metropolitane, neonati soggetti di primo livello (che gradualmente vanno sostituendo tutto o in parte il mandato delle Province), ancora in attesa della nascita delle “Aree Metropolitane”, soggetti di governo del territorio ben più estesi e di secondo livello.
Se di Città Metropolitane si intende discutere sarebbe bene fare chiarezza, per loro natura saranno territori che includano entro uno stesso confine amministrativo, oltre ad un capoluogo, un numero variabile di comuni della prima e seconda cintura di conurbazione.
Il primo dato evidente è proprio di carattere normativo, cambiano radicalmente gli scenari, ciò che sino ad oggi poteva essere considerato periferico, rispetto ad un centro, o presunto tale, si fonde con territori fino a ieri dotati di proprie centralità e autonomie. Scenari del tutto nuovi su cui sarebbe necessario avviare un’analisi scrupolosa.
Nel breve medio periodo, solo una attenta osservazione e interpretazione potrà offrire perimetri, metodi e coerenze degli ambiti sui quali intervenire. Siamo alla vigilia di una stagione di completa e profonda ridefinizione urbanistica delle aree conurbate del paese.
Fra i mandati speciali delle Città Metropolitane più urgente e stimolante di altri, risulterà il riconoscimento di ambiti che per decenni (e in alcuni casi da tutto il dopoguerra) sono sfuggiti a prescrizioni urbanistiche coerenti. Nuove frontiere oggi solcate dall’intreccio di perimetri amministrativi, fra residui di paesaggio agricolo sfregiati dai nastri di tangenziali, infettate da parcheggi e cittadelle onnivore di nuove cattività urbane, ikee e santuari del decatleta, del tre per due e del tasso zero, sfibrate dai demolitori di auto e dai capannoni di piccole e medie attività produttive molte delle quali spesso in stato d’abbandono.
Conoscerle a fondo e interpretarle candida queste terre di nessuno, a diventare linfa di nuove rigenerazioni sociali, spazi pubblici di inedite centralità che potrebbero a medio termine risultare preziosissime e intorno alle quali attivare un reale processo di ricostruzione ambientale ai margini delle grandi città. Ora viene da chiedersi: “ma a questo alludeva Matteo Renzi?”. Temo di no. Se il linguaggio della politica offre il meglio di sé di fronte alla normazione tipologica, poi si stempera all’inverosimile di fronte alla complessità, rifugiandosi nei luoghi comuni e nei concetti chiave del dibattito, richiamati così spesso da risultare in breve inflazionati e privati totalmente del loro autentico significato.
È questo il caso della novella sulle “Periferie” e del suo indiscusso profeta, Renzo Piano, personalità controversa che mentre col piede destro finalizza grattacieli e mega architetture in ogni angolo del pianeta, con il sinistro dribbla il suo impegno da Senatore della Repubblica ripartendo fra sei giovani neolaureati il suo compenso, dando vita ad un laboratorio di progettazione (G124 dalla targhetta del suo ufficio in Senato) chiamato a imbastire alcuni progetti di rigenerazione su lembi di periferie.
Ma che tale “politica” abbia prodotto più parole d’ordine che chiarezza scientifica, trova ulteriore riprova nella confusionarietà del provvedimento e nelle specifiche sulle procedure di accreditamento e partecipazione al bando di assegnazione.
Per vedere accettata e finanziata la proposta sarà necessario che venga presentata entro e non oltre il 31 dicembre del 2015 (sì anche qui avete letto bene, poco meno di quattro settimane) e, come se questo non ponesse dei confini alla realtà delle cose, si pretende l’impegno a terminare le attività e le opere entro l’anno “solare” 2017. Scelte che deprivano di tempo i reali processi di rigenerazione, che proprio nella continuità esprimono al meglio il loro valore.
Non è quindi un caso che a candidarsi siano progetti già confezionati e pronti all’uso, riposti chissà da quanto nei cassetti proibiti dal patto di stabilità e che la pioggia di milioni venga, per così dire, un po’ telefonata, su ciò che ciascuno decide di chiamare periferia. Secondo gradimento e convenienza.
Così, non è stato un giorno come un altro per Torino, se pochissime ore dopo le dichiarazioni del premier, si candidava allo stanziamento il quartiere Aurora, da tempo in attesa di una cura. Aurora non è esattamente un quartiere periferico, messo lì un po’ in mezzo fra il Balön, appendice storica di Porta Palazzo e la Barriera di Milano. Oggi è povero, poverissimo e ricco non lo è mai stato, tanto meno periferico. Un grumo di generici condomini costruiti lungo la Dora Riparia, fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ‘70 per ospitare le famiglie degli operai impiegati nelle vicine Ferriere di corso Mortara, si direbbe un posto qualunque, dove non è mai successo nulla di speciale. Le iniziative previste sono ambiziose e vengono rivolte alla sfera sociale e occupazionale, interventi a favore del ridisegno del suolo, a vantaggio dei pedoni. Un ex deposito comunale oggi diventato “casa” di attività giovanili spontanee (il Checchi Point), uno dei pochi esempi di esperienze nate “dal basso”, è già candidato a pivot di una partita economica, che sembra supporre una pesante “nomalizzazione” sul modello delle più note “case di quartiere”.
Sembra insomma di intravedere che, dietro allo sbandieramento anti ISIS, e nella confusione di una incompiutissima trasformazione “metropolitana”, la nostra risposta di “civilità” possa riuscire e cogliere l’occasione per riattivare qualche ordinaria pratica in sospeso.
Se tutti quei soldi, tanti soldi, fossero rivolti con analogo provvedimento speciale della Presidenza del Consiglio, ad altri settori, ad esempio alla sanità, non si sarebbe aperta una libera competizione scientifica per destinarli alle ricerche più meritevoli? A chi sarebbe venuto in mente di dislocarli in spese correnti ?
Proprio perché si tratta di una misura, unica, speciale, verrebbe da dire epocale, urgente e dall’altissimo profilo culturale della causa in gioco, si potrebbe obbiettare che, forse, certe iniezioni di risorse andrebbero, almeno in parte, meglio spese in ricerca e percorsi di conoscenza. Le nostre Città Metropolitane richiedono attenzione, chiedono di essere indagate, prima ancora che comprese. Sono ormai altra cosa anche rispetto alle numerose trattazioni che fino ad oggi ci permettevano di distinguere le periferie storiche, dai vuoti inattesi di periferie interne.
Non è solo questione di ago, filo e tanta buona volontà, sono in gioco nuovi paradigmi di valore urbano; sensibilità verso territori estesi, maggiore responsabilità e consapevolezza politica del ruolo di governo a cui sono chiamate le amministrazioni dei capoluoghi. Mappare sul territorio, in maniera diffusa, le qualità e le vocazioni con strumenti culturali, prima ancora che tecnico-quantitativi, osservatori con competenze pluridisciplinari in grado di restituirci le chiavi con le quali interpretare lembi di territorio e tipologie problematiche, ancora sconosciute.
In attesa che si conoscano i dettagli e il merito della destinazione del fondo, ci si potrebbe prendere il tempo per affinare qualche logica di reale ricostruzione di una condivisa Cultura Urbana. Giusto perché non si pensi che anche questa volta non fosse in realtà, un giorno come un altro.