Il 6 Luglio si è tenuta presso il Politecnico di Milano la presentazione dei primi risultati del progetto Postmetropoli, programma di ricerca sull’analisi dei processi di trasformazione in corso nelle aree urbane italiane, finanziato dal MIUR quale Progetto di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN).
Il lavoro è frutto della collaborazione di 8 diversi team di ricerca afferenti ad altrettanti istituti universitari italiani (Politecnico di Milano, IUAV di Venezia, Politecnico di Torino, Università di Firenze, Università di Roma La Sapienza, Università di Palermo, Università di Napoli Federico II, Università del Piemonte Orientale).
Dalla comparsa delle metropoli di inizio novecento si è assistito infatti all’espansione continua di funzioni e relazioni di carattere urbano che hanno portato all’interconnessione di aree e contesti fisicamente apparentemente separati, ma nei quali l’urbanità in quanto condizione di vita è invece ben presente ed evidente.
L’istituzione delle aree metropolitane, quali aree vaste in cui tale sviluppo è contenuto, rappresentano un tentativo di inquadramento ed analisi di questi processi piuttosto nebuloso e oggetto di perenne dibattito (accademico e non).
L’approccio del progetto Postmetropoli, al contrario, pone in secondo piano gli aspetti definitori a priori e adotta un’ottica induttiva per andare a vedere cosa stia accadendo nei territori e individuare le strutture e dinamiche di sviluppo presenti nel contesto nazionale.
Per l’occasione abbiamo intervistato due dei giovani membri del network di ricerca che hanno contribuito alla realizzazione del progetto: Francesco Curci (assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano) e Valeria Fedeli (prof. Associato presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano).
Il programma di ricerca “Territori postmetropolitani come forme urbane emergenti”, nasce con l’obiettivo di mettere a confronto le tendenze di sviluppo della condizione urbana del territorio italiano per tentare di ricondurle a modelli descrittivi e analitici presenti nella letteratura internazionale. Nello specifico, come si evince anche dal titolo del vostro progetto, uno dei vostri riferimenti sembra essere la teoria della postmetropoli di Edward Soja (2000). Siamo stati abituati da tempo ad avere a che fare con definizioni precedute dal prefisso post, che valore ha nel vostro caso?
F: Si parla di Postmetropolitano per riferirsi a quelle forme di sviluppo urbano più recenti che stanno andando a sostituire il modello metropolitano “tradizionale”. Intendo con questo una realtà in cui si riscontrava un centro urbano principale dal quale poi si diramava, via via degradando in densità e livello di funzioni, un tessuto urbanizzato che da esso traeva origine e linfa. La nostra sfida è consistita anche nell’ individuare come e se tali tendenze si manifestassero anche in un contesto, quello italiano, che non ha mai attraversato una fase metropolitana analoga a quella americana, dove la teoria – se così possiamo definirla – del postmetropolitano è nata.
V: Quello che riscontriamo è che in Italia si assiste alla compresenza di situazioni e condizioni urbane molto differenti, che rispondono a diversi modelli di sviluppo, per ragioni storiche e geografiche specifiche dei diversi territori: possiamo riscontrare modelli reticolari, dove il tessuto urbano appare come molto frammentato nello spazio e in cui emergono alcuni centri principali che costituiscono i nodi di una vera e propria rete fatta di infrastrutture e relazioni funzionali, come in Veneto oppure un modello affine a quello della regione urbana, come nel caso di Milano. Il caso del Veneto al riguardo è emblematico in quanto, come già accennato, non ha mai vissuto una fase di metropolizzazione ma si trova a dar conto di una struttura postmetropolitana, dove le opportunità e i centri di interesse ed attrazione si moltiplicano e diffondono nel territorio. Questo fenomeno comporta una crescente problematicità in termini di gestione e governo oltre che di comprensione delle nuove forme di urbanità per via della loro complessità.
Qui si evidenzia dunque il valore del vostro lavoro: oltre a rappresentare un tentativo di avanzamento conoscitivo, vuole avere delle ricadute anche sulla capacità di governare i processi di sviluppo attuali. Un conoscere per poter fare?
F: esatto, in concreto ci siamo posti come obiettivo quello di realizzare uno strumento conoscitivo che, attraverso la raccolta ragionata e l’analisi dei dati disponibili di tipo amministrativo e statistico, in ottica geografica, potesse restituire un’immagine della realtà italiana. A questo fine abbiamo realizzato un Atlante web per poter mappare la distribuzione di fenomeni socioeconomici sul territorio nazionale, ed individuare le loro tendenze di concentrazione e diffusione al dettaglio comunale.
Una sorta di atlante tematico dunque?
F: sì, più o meno, ma dinamico ed aggiornabile. Abbiamo insistito molto su questo aspetto, per evitare che il frutto del lavoro fosse alla fine un atlante su un supporto statico come quello cartaceo. Per meglio dire: non ci sembrava sensato che, in un certo senso, il lavoro si “concludesse”. L’atlante è un prodotto in fieri, come d’altronde il fenomeno che rappresenta. Il valore aggiunto del nostro progetto è quello di garantire la fruizione di uno strumento che segua lo sviluppo dei fenomeni di cui vuole dare conto.
Inoltre l’Atlante per noi ha anche un altro significato: è stato concepito quale bene comune, uno strumento che possa essere fruito da chiunque, sia all’interno dell’accademia che al di fuori di essa. Anche per questa ragione è stata scelta la risorsa web: solo così eravamo certi di poter raggiungere il pubblico più ampio possibile. Si tratta di un prodotto assolutamente open, sebbene non sia possibile ad oggi, per una questione di autorizzazioni, scaricare le basi dati visualizzabili in mappa. Ma tutto ciò che compare in esso può essere utilizzato e diffuso.
Dalla navigazione dell’Atlante si individuano 8 diverse dimensioni di analisi: dalle morfologie e dinamiche abitative, agli usi e coperture del suolo, passando per i processi economici, articolati in numerosi indicatori. Si tratta di una mole notevole di dati, che va a toccare moltissimi aspetti della vita di un territorio. Che tipo di rilevanza ha un simile lavoro di raccolta e sintesi?
F: Il nostro sforzo è stato quello anche di raccogliere dati da fonti diverse, l’Istat prima di tutto, ma anche dall’Ispra, e dall’Agenzia delle Entrate, dati, questi ultimi, solitamente non disponibili. Volevamo mettere a disposizione una piattaforma che sintetizzasse le informazioni esistenti e rilevanti, secondo la nostra sensibilità, sui fenomeni urbani postmetropolitani. Una sorta di strumento di monitoraggio delle tendenze urbane italiane.
È un lavoro molto utile anche e soprattutto in questa fase di progressiva istituzione delle città metropolitane. Cosa avete riscontrato nel corso della vostra ricerca che potrebbe essere utile al riguardo?
F: Da una semplice osservazione dei dati del nostro Atlante appare evidente come molte tendenze di diffusione e concentrazione siano indipendenti dai territori delimitati dai confini amministrativi tradizionali quali quelli provinciali. I fenomeni e le strutture postmetropolitane non tengono conto di queste forme di demarcazione, ne oltrepassano i bordi costituendo nuove e diverse morfologie. Temo che qualsiasi definizione di città metropolitana che non consideri questo fatto sia destinata ad avere poca fortuna poiché non corrispondente alla realtà dei fenomeni che dovrebbe rappresentare. Un esempio tipico è quello della città metropolitana di Milano: non comprende territori della Provincia di Monza e Brianza che invece sono strettamente interrelati ad essa.
Un problema perciò non tanto, o non solo, scientifico, ma anche politico-amministrativo. In una situazione così nebulosa quale criterio di osservazione ed analisi avete adottato?
V: Per evitare di scegliere lenti di osservazione precostituite, per quanto possibile, che potessero escludere dallo sguardo fenomeni importanti abbiamo optato per una scelta attentamente ragionata ma semplice ed efficace. L’Atlante può essere interrogato a livello nazionale infatti, mostrando i dati al livello di dettaglio comunale, ma anche per “tasselli” e “corridoi”. Si tratta di due lenti analitiche diverse: i tasselli consistono in riquadri di 100km per 100km di territorio, delle “finestre” collocate in corrispondenza di zone ad alta urbanizzazione o dove si rilevano concentrazioni di tipo postmetropolitano, che permettono di osservare un frammento dell’organizzazione spaziale dell’urbano senza la cornice precostituita della città metropolitana ad esempio, della provincia o della regione.
L’alternativa è quella del corridoi: si tratta di zone costituite dalle linee di comunicazione e trasporto strategiche individuate dall’Unione Europea [per un approfondimento si veda http://ec.europa.eu/transport/themes/infrastructure/index_en.htm], che possono essere considerate come le nuove linee di interconnessione che permettono un’analisi del fenomeno urbano su di una scala più elevata di quella non solo locale ma addirittura nazionale. Molti dati quantitativi infatti non riescono a dare ragione di questa dimensione che assume una scala continentale ed impatta con forza sul contesto locale plasmando le forme dell’urbano e contribuendo così all’emersione dei territori postmetropolitani.
Quindi l’urbano come fenomeno ubiquo e pervasivo? Sembra allora trovare conferma l’immagine di un mondo “totalmente urbano” come affermato da alcuni teorici dell’urbano recenti (si vedano i contributi dell’Urban Theory Lab).
V: sì, ci pare evidente come il diffondersi dell’urbano, non solo come contesto fisico, ma in quanto condizione, generata anche dalle pratiche, abbia portato alla creazione di contesti in cui inaspettatamente si ritrovano caratteri di urbanità. Uno dei nostri “tasselli” ha inquadrato ad esempio la Gallura, dove si trovano località turistiche dalle funzioni e caratteri tipicamente urbani pur rappresentando un territorio non classificato abitualmente come tale. Questo genera un duplice problema: come amministrare un territorio simile? Applicando le politiche tipiche di territori urbani o mantenendo le pratiche tipiche dei contesti che urbani non sono? O, come pare più sensato, elaborare nuovi strumenti? E quindi: come gestire in maniera integrata territori tanto differenziati al loro interno?
F: questa ibridazione appare un elemento ormai diffuso, che comporta un’attenta gestione e valorizzazione di tali diversità e del dinamismo che le caratterizza. Più che un limite dovuto all’assenza di una specializzazione funzionale ritengo che avere territori diversificati e compositi sia un valore, in un contesto in cui occorre ragionare in maniera sempre più ampia, elastica ed “integrata” per comprendere e saper gestire al meglio fenomeni tanto complessi e permetterne uno sviluppo armonioso.