Lo senti, lo vedi e lo avverti appena arrivi che Palermo è una città segnata da fratture estreme, una città colma e barocca e allo stesso tempo una città rotta e lorda. Per questo ha tanto da dire e da insegnare. Non sono le premesse di un discorso estetizzante o esotizzante, bensì un invito a cogliere in questa città del Sud la presenza di una dialettica faticosa, conflittuale, tra una pluralità di attori e di pratiche.
Il network di ricercatori e di ricercatrici di Tracce Urbane ha scelto proprio questa città per sperimentare e iniziare una nuova formula di fare seminario. Abbiamo portato fuori dall’accademia alcuni dei temi su cui stiamo lavorando da anni (“Risorse dei luoghi e sviluppo territoriale”, “Accesso alla città e infrastrutture”, “Sport e spazio urbano”, “Spazi pubblici e differenza”, “Territori cartolina e museificazione dell’urbano”), con l’intento di dialogare con i soggetti attivi sui territori. Avevamo l’esigenza di vedere come le nostre riflessioni potessero uscire stravolte e, perciò, arricchite da un confronto che mettesse al centro un territorio come Palermo. Ora che “Tracce Urbane al Sud” – come è stata chiamata dagli organizzatori Davide Leone e Cristina Alga di Clac/Ecomuseo Mare Memoria Viva – è terminato, possiamo dire che questo incontro seminariale è davvero riuscito.
Crediamo che queste due parole, incontro e seminario, rispecchino lo stile con cui il nostro network si avvicina ai territori aprendosi all’ascolto da un lato e provando ad aggiungere la sua voce dall’altro. Una voce che non è mai affermazione astrattamente tecnica ma domanda di ricerca che invita alla riflessività e alle problematizzazione delle pratiche e delle analisi della vita quotidiana.
Raccontare Tracce Urbane a Palermo significa raccontare le diverse associazioni e gli studiosi che operano da anni nel tessuto urbano palermitano (e che ringraziamo per la disponibilità, la passione e la professionalità; l’elenco, troppo lungo per essere riportato in questa sede, lo trovate dettagliato sul nostro sito). A noi è parso un territorio in fermento con molte esperienze di riappropriazione della città promosse e condotte dai cittadini (solo per citarne alcune, ‘Il Parco dell’Uditore’ recuperato da un gruppo di abitanti e trasformato in uno degli spazi verdi più vivi di Palermo, l’Ecomuseo del Mare che ha ospitato il seminario e che nasce dall’esigenza di ‘restituire’ il mare alla città e promuovere cittadinanza attiva, ‘Booq’, la biblioffocina occupata di quartiere nel cuore del centro storico).
Perché quando si minaccia la temporalità e la processualità di un luogo, si minaccia anche il luogo stesso
Tutte queste pratiche di riappropriazione hanno messo al centro di volta in volta la produzione di socialità, il riciclo di spazi e di beni, l’empowerment di popolazioni marginalizzate (i migranti, i bambini, le donne o un’intersezione tra queste categorie), la relazione più stretta tra abitanti e luoghi di vita quotidiana.
Abbiamo riflettuto su chi sono i pubblici, su chi fruisce realmente di questi spazi ‘liberati’, invitando, costantemente a non produrre ‘nicchie virtuose’ ma orientando sempre l’attenzione al territorio, nella sua durezza e complessità. Consapevoli del fatto che questi luoghi e queste pratiche hanno bisogno di continuare a produrre una storia e una memoria dinamica, rimanendo cioè aperti al cambiamento, allo sporco, al rotto, all’umano diremmo.
Perché quando si minaccia la temporalità e la processualità di un luogo, si minaccia anche il luogo stesso. In un ambito come quello degli studi urbani ormai saturo di parole d’ordine evocative, abbiamo utilizzato il termine riappropriazione rispettandone il senso originario, quello degli attori e dei contesti in cui nascono. Un esempio su tutti emerso dal seminario può esprimere secondo noi cosa vuol dire fare un ascolto situato/contestuale dei territori.
Nelle varie sessioni di lavoro è risultato che a Palermo si conducono un numero rilevante e crescente di mappature: la Mappa Palermitani Attivi. La mappa dei beni comuni di cui gli abitanti si prendono cura, A che gioco giochiamo? che mappa gli spazi gioco spontanei in città, le Free Map turistiche fatte dagli abitanti di Palermo o le contro-mappature di AddioPizzoTravel che mira a ribaltare la mappatura dei luoghi di mafia della Sicilia cinematografica.
Ci siamo quindi domandati qual è il valore simbolico di una mappa, oltre a quello strettamente funzionale di trovare, condividere e far conoscere un luogo, quali le ricadute non intenzionali sui territori di una mappatura di un’esperienza spontanea. Molte pratiche sono il frutto di una storia che si è depositata nel tempo in uno specifico luogo. Se quindi all’analista che ha costruito un suo bagaglio di conoscenze e strumenti attraverso ricerche svolte in altri contesti, per esempio del centro o del nord Italia, la mappa può anche risultare uno strumento che mette potenzialmente a rischio la vita di quegli spazi e di quelle esperienze che vorrebbe valorizzare, in questa città mappare può proprio esprimere la volontà di tracciare, di lasciare un segno nel caos amministrativo per dire “io esisto e non mi lascio cancellare”.
Lavorare sulla città di Palermo significa porre al centro il rapporto particolarmente difficoltoso con un’istituzione pubblica da anni assente e sorda che amministra spesso senza conoscere i luoghi e le pratiche, senza sapere cosa sono e dove sono nella mappa, appunto. In questo senso, per esempio mappare i luoghi di gioco spontanei se rischia da un lato di congelare la sperimentazione insita nella spontaneità menzionata, dall’altro contribuisce a scrivere una narrazione di una Palermo ludica, di una Palermo che gioca (‘la città è di chi se la gioca’ ci hanno ricordato gli animatori di ‘Mediterraneo Antirazzista’) e con cui un’amministrazione dovrà prima o poi confrontarsi.
L’incontro a Palermo è andato oltre la stanca dicotomizzazione tra spazi di libertà e spazi di sicurezza per andare verso il riconoscimento di una relazione dialettica. Non c’è un bene contro un male, una visione angelicata dello spazio libero ed una demoniaca dello spazio istituzionalizzato parafrasando Gill Valentine. Va riaffermata la ricchezza creativa delle pratiche spontanee e ripensata l’istituzionalizzazione/formalizzazione degli spazi di gioco anche a partire da quello che succede in altri paesi che hanno già “subito” questo processo di messa in sicurezza degli spazi gioco e che si trovano ora a ricreare in forme più o meno artefatte spazi di gioco wild per i bambini.
Qual è dunque la giusta dose di sporco, chiasso, spontaneità e sregolatezza che possiamo accettare perché uno spazio pubblico rimanga tale?
La spiegazione più spesso offerta dagli studiosi del territorio, dalle associazioni e dai comitati spontanei attivi nei quartieri però, è stata: i bambini e, in generale, gli abitanti stanno nello spazio pubblico “per necessità”, per mancanza “d’altro”, come se lo spazio pubblico fosse uno spazio residuale, uno spazio di cui accontentarsi, simbolo di quello che non c’è e per questo spesso sinonimo di degrado. È sicuramente una lettura ‘disturbante’ in una fase storica in cui in gran parte delle città italiane è ricorrente la narrazione contraria, di scomparsa dello spazio pubblico (quello spontaneo, quello fatto di tanti pubblici, delle differenze) a favore di uno spazio anestetizzato, sterilizzato e sempre più ripulito di voci e corpi dissonanti (uno spazio pubblico ridotto a spazio di ordine pubblico).
Qual è dunque la giusta dose di sporco, chiasso, spontaneità e sregolatezza che possiamo accettare perché uno spazio pubblico rimanga tale? In che rapporto stanno degrado, spontaneità e accesso alla città? Uno spazio pubblico troppo vissuto quando ha bisogno di essere regolato/contenuto?
Non si tratta, dunque, di proporre ricette valide universalmente ma di costruire pratiche, politiche e spazialità contestuali che sappiano interpretare i percorsi dei differenti territori, valorizzando attori, spazi e network locali. Le città, infatti, devono essere abilitanti più che abilitate, e cioè confezionate ad hoc per un uso già prefigurato dal progettista, sia esso l’amministrazione, l’associazione che lavora “dal basso” o l’accademico illuminato.
I saperi accademici possono assumere un valore trasformativo se accettano di essere contestuali e, perciò in qualche modo, contestati dalle esperienze dei territori. E questo può succedere solo quando la ricerca è in grado di porre al centro i vissuti degli abitanti, in quanto attori urbani, e di considerare i luoghi come territori sempre potenzialmente attivi, generativi e aperti a continui processi di mappatura.
Il prossimo seminario-laboratorio per i ricercatori di Tracce Urbane sarà a Tor Bella Monaca. All’ecomuseo del mare si continuerà a parlare di riappropriazione di spazi e gestione partecipata dal 15 al 17 ottobre con Nuove Pratiche Fest e CON IL SUD.
Questo intervento segue quello di Chiara Rabbiosi, Turismo partecipativo, città e capitale relazionale, Alberto Vanolo, Smart City e il controllo dell’intelligenza e fa parte di una serie a cura di Roberta Marzorati e Marianna D’Ovidio sui temi urbani. Uno spazio sviluppato da cheFare in collaborazione con il dottorato UrbEur di Milano.