“Il futuro non è più quello di una volta”. Che questo aforisma sia riportato correttamente e venga attribuito al suo autore originale o meno (tra i tanti viene citato Paul Valéry), la frase contiene comunque un senso che ci è familiare. Ma non è tanto per discutere su chi “ci ha rubato il futuro”, come vuole un luogo comune giornalistico, quanto per sottolineare come il futuro nasca da un presente, via via diverso, e al presente in cui viene pensato faccia riferimento.
Il futuro viene narrato, desiderato e temuto, ma nel momento in cui volgiamo al presente in cui ci sentiamo immersi, che è in fondo il futuro realizzato a partire da un presente “passato”, il futuro viene anche percepito. Se, come voleva Sant’Agostino, il futuro è in realtà un “presente del futuro”, cioè l’attesa qui e ora di un avvenimento che deve ancora accadere, in ogni presente vi è anche la possibilità di verificare l’esito di questa attesa. Dunque da un lato nel presente possiamo riconoscere un futuro che avevamo atteso, ma allo stesso tempo ci confrontiamo con l’inatteso, con un esito imprevisto. Ed è qui l’inghippo.
Secondo un modello che si consolida almeno da Husserl e che passando attraverso le scienze cognitive si affaccia oggi anche nelle neuroscienze, ogni momento percettivo nasce dall’orientamento verso un’aspettativa che trae il suo fondamento dall’esperienza passata. Noi insomma saremmo sempre in attesa di un qualcosa che, almeno in una qualche forma, già conosciamo perché l’abbiamo vissuto; la nostra attenzione è in definitiva sempre rivolta a confermare le nostre previsioni. Una tale affermazione può essere decisamente gravida di conseguenze per molti aspetti della nostra esistenza, ma, in questo contesto, sembra semplicemente voler dire che non possiamo che aspettarci qualcosa che è al più la trasfigurazione di ciò che già conosciamo.
Dunque, e qui mi permetto un salto concettuale a piè pari, tutto ciò che noi desideriamo o che temiamo per il nostro futuro non è che una versione del nostro presente, compreso il suo passato, trasposto in un’apparenza esotica, che deriva dal sapore della lontananza futura. E il futuro è esotico appunto perché ci presenta come uno specchio deformante ciò che siamo oggi: simili, ma con la fronte più alta, come in certe illustrazioni fantascientifiche degli anni sessanta, e a bordo di macchine volanti. Oppure il futuro ha lo sguardo dei Morlock, la degenerazione dell’uomo rappresentata nel classico di H.G.Wells “La macchina del tempo” come un ritorno darwiniano alle origini, pur nella pallida variante di un essere scimmiesco che vive nel buio.
A questo punto però sorge un dubbio: se percepire è riconoscere, come faccio a riconoscere qualcosa che non ho mai incontrato? Come faccio a prevedere un futuro che sia veramente nuovo? E questo è un problema che si pone anche e soprattutto con l’idea di “innovazione”.
Quanto, ad esempio, di ciò che è oggi internet era prevedibile negli anni di Arpanet, il progetto originario da cui si è sviuppata la rete globale? Per capirlo ci può essere utile una visione dei processi temporali come catena di vincoli, che possiamo ricondurre all’idea di “deriva” proposta dai due scienziati/filosofi Humberto Maturana e Francisco Varela: ogni istante presenta delle possibilità di movimento che dipendono dalla posizione in cui si è in quell’istante, un po’ come ciò che succede a una bottiglia abbandonata all’oceano. Per la cronaca, si tratta di una variante di quello che nella matematica dei processi stocastici viene chiamata “passeggiata aleatoria”.
Ogni presente contiene il seme del proprio futuro, ma non è facile prevedere esattamente in quale direzione questo si sivlupperà. Una volta però determinata la sua direzione, altre possibilità si aprono: alcune prevedibili fin dall’inizio, ma altre neppure pensabili, perché nel presente non ci sono neppure le condizioni, radicate nell’esperienza, per pensarle. E così via, fino a che il numero di possibilità impensabili diventa sempre più alto e una previsione plausibile è ormai impossibile.
Ciononostante, il fatto che ci sembra facile prevedere un futuro molto prossimo, ci rassicura con l’illusione, insieme a quell’altra illusione, quella di desumere delle leggi storiche dal passato, di poter prevedere dove ci porterà la deriva del tempo.
Insomma non c’è scampo, il futuro delude sempre perché l’unica condizione per poterlo prevedere è quella di eliminare il tempo così com’è e di trasformarlo, come fa la relatività, in una variabile geometrica, che però si ostina a negarci il piacere di andare avanti e indietro nel tempo, come siamo abituati a fare nello spazio.
E dunque: che fare (come dicono gli inglesi: “pun intended”)?
Continuiamo pure a cercare di prevedere il futuro e a costruire visioni, non solo perché è divertente, ma anche perché le nostre azioni hanno bisogno di una direzione. Il futuro, una volta fatto il grande salto che trasforma il presente in passato, continueremo a non riconoscerlo mai, perché sarà sempre diverso da come ce lo aspettiamo. Dal futuro ci rivolgeremo al passato e probabilmente ammetteremo: “Certo, è facile capire, date le premesse, come ciò che siamo oggi si sia sviluppato da ciò che eravamo un tempo, ma a quell’epoca era difficile prevederlo”.
Ma il futuro, così come lo cerchiamo nelle visioni, nelle proiezioni o nella letteratura d’anticipazione, è un’astrazione, l’astrazione di un desiderio o di una paura che abbiamo oggi; è una presenza impalpabile, come del resto quella del presente. Invece ciò che sarà, quello sì, è certamente il frutto delle nostre azioni; e anche delle nostre previsioni, pur sbagliate. Lì non c’è niente da riconoscere, ma tutto da costruire, cercando, presente dopo presente, di muoverci dalla nostra posizione occasionale verso una direzione che sia il più possibile nella direzione di una visione, sempre diversa.