Abbiamo provato a ragionare su alcuni degli interrogativi più interessanti attorno al tema dell’innovazione culturale con Giovanni Maria Petrini (Principal di Avanzi. Sostenibilità per Azioni – Senior mentor per Make a cube3)
Nel tuo percorso professionale ti sei occupato di impresa da molti punti di vista diversi. Se fino a pochi anni fa si trattava di una parola vista con estrema diffidenza negli ambiti della cultura, oggi invece viene utilizzata continuamente. Ma cosa vuol esattamente essere imprenditore? E che differenza c’è tra imprenditorialità ed imprenditività?
Imprenditività e imprenditorialità sono due parole sempre più di moda, soprattutto tra i giovani (intesi come “giovani all’italiana”, quelli tra i 20 e i 40 anni), come testimoniato anche da una recente ricerca sul rapporto tra cittadini europei e imprenditorialità (nota).
L’imprenditività è un’attitudine personale e come tale è in parte innata in noi (chi più, chi meno) e in parte può essere colta e sviluppata da ciascuno nei propri percorsi professionali e di vita, grazie ad un lavoro di auto-analisi eo attraverso a esperienze e percorsi di capacity building.
“In soldoni” si intende il lavorare con spirito e competenze imprenditoriali a prescindere dalla natura del rapporto con il lavoro che si è chiamati a svolgere. Cioè significa essere proattivi, innovativi, creativi, ma anche conflittuali e ambiziosi, nel cercare non solo di fare sempre al meglio il proprio compito (fin qui potremmo parlare della buona vecchia “etica professionale) ma anche di aiutare gli altri “colleghi” e l’organizzazione inpercon cui si lavora a migliorare e crescere.
L’imprenditorialità, invece, è la capacità di gestire la propria impresa, di “essere imprenditore”. Nei percorsi di accompagnamento alla nascita di nuove imprese che Make a Cube3 organizza ormai da 5 anni, il primo tema che trattiamo è la presa di consapevolezza da parte dei partecipanti di cosa significhi essere imprenditori e se si possa, o meglio, se si voglia davvero diventarlo. È per noi un punto esiziale, perché in Italia si sta verificando una pericolosa distorsione: le nuove imprese (o startup che dir si voglia) sono sempre più narrate e vissute come un ammortizzatore sociale con cui risolvere il problema della disoccupazione, si tratti di giovani laureati, NEET, immigrati, ex-dipendenti 50enni in mobilità o anche ex-manager di grandi multinazionali.
Nella contrazione generalizzata dei percorsi lavorativi e professionali tradizionali, i singoli cittadini, i media e i policy maker vedono sempre più nel “fare impresa” o “mettersi in proprio” lunico modo per trovare lavoro. La risposta quindi a un bisogno, non una scelta consapevole. Purtroppo per noi, fare l’imprenditore è il “mestiere” più difficile che esista, come raccontano i molti che ce l’hanno fatta, e ancor più i tanti che hanno fallito.
In ambito culturale sembra esserci una particolare difficoltà nel comprendere le implicazioni di pratiche diverse legate al profit, non profit e low profit. Come leggi questa confusione? E’ il prodotto di una specificità storico-culturale?
La confusione tra profit e no profit mi pare ancora molto diffusa in generale. Si sente ancora spesso dire che se uno “vuole fare i soldi”, deve creare fare una impresa, intendendo implicitamente una tra sas, srl, spa o in alcuni territori cooperativa. Se invece si vuol “fare del bene” ci si dà al volontariato e all’associazionismo, dove si lavora per passione e idealità, non per soldi. Nel “no profit” tutto è bello e pulito, ma povero e un po’ sfigato. La realtà per fortuna è più complessa, contraddittoria e soprattutto in rapido cambiamento.
Il cosiddetto Terzo Settore sta costantemente ampliando i propri settori di attività (welfare, scuola, ambiente, salute, cultura, patrimonio, formazione, housing sociale, public utility, ecc ) e cresce come dati economici da molti anni, nonostante la crisi (nota). Questo grazie alla Pubblica Amministrazione che ha man mano esternalizzato al “privato sociale” quote crescenti di attività e servizi, in un’ottica di sussidiarietà la cui origine è la crescente incapacità (economica e di know how) di fornire gli stessi in maniera efficace e efficiente.
Ma all’interno delle tante organizzazioni senza scopo di lucro – associazioni, fondazioni, comitati, imprese o cooperative sociali, ecc. – crescono quelle che assumono forma e soprattutto sostanza di impresa, cioè vivono di prodotti e servizi offerti sul mercato, come alternativa agli appalti pubblici e alla raccolta fondi (cd fundraising). Per queste imprese lo scopo è produrre un beneficio collettivo ma per farlo svolgono attività e lavorano con logiche identiche a quelle delle imprese profit: sostenibilità economica, efficienza, efficacia, professionalizzazione. La differenza è che per loro lo scopo primario è generare beneficio per una specifica classe di utenti, spesso svantaggiati, o per la collettività in genere; non massimizzare il profitto come nelle imprese profit.
In questo contesto il settore culturale dimostra una peculiare sacca di “arretratezza” non tanto nella capacità di distinguere tra profit e no profit, quanto nell’elaborazione collettiva degli attori sulla centralità del tema della sostenibilità economica della attività culturale, tema che nei settori “limitrofi” del welfare, dello sport o della green economy è stato invece affrontato, dibattuto e assimilato.
Il problema è presto detto: in una società in cui il finanziamento pubblico si sta prosciugando, le grandi imprese sono meno propense a erogare sponsorizzazioni e il mecenatismo privato stenta ad affermarsi per ragioni storico-culturali, gli operatori del settore che vogliono legittimamente continuare a vivere della loro produzione culturale, devono porsi il tema della sostenibilità economica della loro attività.
Quali sono le caratteristiche specifiche dell’imprenditoria culturale secondo te? In cosa differisce dagli altri settori?
Innanzitutto gli imprenditori culturali soffrono più di altri di un gap educativo sui temi tecnici e sull’imprenditorialità, derivanti dall’assenza nei percorsi formativi scolastici e universitari “di riferimento” (scienze umanistiche in primis) di: matematica, scienza e economia; esperienze di uso pratico di tecnologie, anche semplici, come Excel; esercizi di sintesi e pratiche di comunicazione efficace orale e scritta. Per la serie “mal comune, mezzo gaudio”, hanno invece in comune a quasi tutti gli studenti italiani l’ignoranza su cosa sia un’azienda, cosa sia il mondo del lavoro oggi e cosa significhi essere imprenditori.
A questo aggiungiamo che c’è meno storia e esperienza pregressa rispetto all’attività di impresa in molti dei settori, rispetto per esempio alle ormai duetre generazioni di imprenditori sociali italiani.
Rispetto ai digitali c’è meno ambizione, sia reddituale che di scala: molte delle idee sono al livello dell’autoimpiego personale o di un gruppo di amici e placed-based, cioè legate a un luogo o a una comunità locale.
Di certo c’è una grande debolezza identitaria, di senso di comunità e creazione di network, di scambio di pratiche e quindi di rappresentanza degli “imprenditori culturali”, mentre il Terzo Settore è iper-strutturato, la green economy ha un suo ecosistema internazionale e le startup stanno costruendo ambiti di narrazione e advocay molto forti. Questa debolezza ha una importante conseguenza sul fronte dei finanziamenti perché gli altri settori hanno la capacità di interloquire con banche e organizzazioni finanziarie, mentre le imprese creative e culturali sono ancora degli oggetti misteriosi.
Tuttavia il dato socio-economico più rilevante è che alcuni dei settori della cultura (e della formazione e ricerca più in generale) sono caratterizzati da una quota massiccia e crescente di operatori “imprenditori di sé stessi” .
Quali prospettive professionali hanno infatti oggi musicisti classici, restauratori, archeologi, attori, videomaker, editor, antropologi, coreografi, architetti, geografi, storici, letterati, ecc. formati nelle nostre migliori scuole e università?
Oggi l’imprenditorialità personale è per tutti loro richiestaimposta e allo stesso tempo scelta con convinzione (in un intreccio psico-sociologico davvero interessante). Una intera generazione cresciuta in una narrazione famigliare e sociale in base alla quale sarebbe bastato studiare per poter aver accesso al lavoro (dei sogni), a un reddito (crescente), a una casa e a una famiglia, a tanto tempo libero (grazie anche ai computer che ci avrebbero dovuto rendere liberi…), a un lunga e attiva vecchiaia, in sintesi alla felicità come magnifica sorte progressiva verso uno “empireo ” rappresentato dalla pensione (la cui sorte attuale ricorda quello del Dodo dell’isola di Mauritius…).
E invece oggi tocchiamo con mano non una ma due generazioni di cittadini tra i 25 e i 40 anni iper-formati, internazionali, digitalizzati ma emotivamente (prima che socialmente) precari, il cosiddetto “cognitariato”. E con la necessità di costruirsi (ma spesso potremmo dirsi inventarsi) un percorso professionale, a meno di aver avuto la fortuna di essere “figli di…” o “amici di…”, dato che il “diritto di nascita” è l’unica vera garanzia di ascesa sociale, con buona pace di chi si riempie la bocca con la parola “meritocrazia”.
Quali pensi che saranno gli sviluppi dell’imprenditoria culturale nei prossimi anni?
A livello di dinamiche di sviluppo, innanzitutto vedo il tema dell’imprenditività penetrare in maniera crescente nelle Istituzioni Culturali pubbliche, perché in assenza di fondi pubblici non c’è alternativa, ma anche perché vedo tanti attori del sistema che stanno capendo l’importanza di andare oltre lo “status quo”. Anche il legislatore sta cercando di facilitare il processo, per esempio con la legge che da autonomia patrimoniale ai musei (Nota) o l’art bonus (nota) o bandi per il matching tra Istituzioni e PMI innovative, come “innovacultura” di Regione Lombardia e Fondazione Cariplo (nota). Inziaitive come quest’ultima son davvero molto importanti anche per sostenere la crescita delle imprese creative e culturali.
Su questo fronte emerge sempre più netta la necessità di un intervento legislativo che ne faciliti la nascita, lo sviluppo, l’aggregazione, la rappresentanza e l’internazionalizzazione, contando che in Europa sono ormai molti i casi di rilancio economico e sociale di città e regioni grazie alla “creative economy”.
L’esito di una iniziativa nazionale, inoltre, aiuterebbe il consolidamento di fenomeni di grande interesse e potenzialità, come i processi di contaminazione tra imprese tradizionali (grandi e PMI) e imprese creative e culturali, nell’ottica di un reciproco scambio tra innovazione e solidità; o la riattivazione dei mille spazi “vuoti” che ogni città e paese ha in Italia, per dar vita a centri di innovazione “a base creativa e culturale” per il tessuto economico e sociale locale.
Il fenomeno di più interessante sviluppo è tuttavia quello della proliferazione e consolidamento di esperienze collaborative intra operatori e imprese culturali e tra questi e le comunità poste al loro esterno, locali ma anche “di pratiche”.
Rispetto alle dinamiche interne, il diffondersi dei co-working e dei centri di innovazione culturale, in cui i “the bohemians meet the nerds”, come di imprese fatte da reti di singole partite iva e micro-imprese con diverse competenze e spesso non vincolate a un contesto geografico unico (le potremmo chiamare imprese diffuse, liquide o cloud), prefigurano la possibilità che dalla condivisione di spazi, esperienze, idee, contatti e commesse si passi a nuove forme di mutualismo il cui scopo è riaggregare il polviscolo del cognitariato attraverso un sostegno reciproco anche a livello economico, professionale e personale, proprio come successe per i braccianti e gli operai tra fine ‘800 e primi del ‘900.
Allo stesso tempo “co-creazione, co-produzione, co-distribuzione, co-promozione (quale è il social media marketing) e co-finanziamento” sono sempre meno slogan accattivanti e sempre più pratiche di successo in grado di ridare “senso” alla Cultura – dal patrimonio archeologico alle scienze umane, dalla musica classica all’arte contemporanea – attraverso un crescente protagonismo delle comunità e dei cittadini.
Ma il processo potrebbe avere un’ulteriore impatto sistemico. Condivido appieno la lettura che vede in questo fermento la possibilità che emerga una “terza via” tra “pubblico” (inteso come Stato) e “privato” di produrre cultura. Il protagonismo dei cittadini nei processi culturali che si trasformano da semplici consumatori (paganti o no) a co-produttori (cd prosumer) porta, a io avviso, alla conseguenza naturale che essi assumano un ruolo sempre più centrale nella gestione e nella proprietà.
Per uscire dall’impasse tra proprietà pubblica (universale ma insostenibile) e privata (efficiente ma selettiva nell’attivazione, discriminante in base al reddito e spesso monopolistica) una possibile soluzione e alternativa (non erga omnes!) potrebbe essere rappresentata dalla socializzazione della proprietà, che resterebbe “pubblica” in quanto espressione di comunità, più o meno ampie fino all’intera cittadinanza, ma potrebbe avere logiche imprenditoriali e processi gestionali manageriali nell’ottica di raggiungere la sostenibilità economica necessaria a garantire la generazione del valore culturale e sociale.
Tale fenomeno, che può sembrare visionario e utopistico (cose entrambe vere e positive dal mio punto di vista), in realtà si sta verificando anche in altri contesti. Penso all’emersione del tema del Welfare di Comunità e delle Imprese di Comunità nel settore del Sociale (nota), all’anima “democratica” insite nelle criptocurrency e nelle monete complementari, alle molte esperienze bottom-up di vera economia della condivisione, alla crescita dell’equity crowdfunding nel mondo delle startup tecnologiche, le cui potenzialità in questo scenario assumono rilevanza eversiva rispeto al rapporto tra capitale e lavoro.