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Incontro Miranda a Hoxton Square, in uno dei quartieri più hipsterizzati di Londra. Non ha nemmeno trent’anni ed è vestita con un maglione largo e colorato, dei jeans strettissimi arrotolati appena sopra la caviglia, e un paio di scarpe stringate. Sì, sembra essere abbastanza hipster per vivere e lavorare qua. Miranda è laureata in architettura a pieni voti ma ha deciso di non andare a lavorare in uno studio. Mentre beve un succo alla banana e kiwi, la cui etichetta giura che non contiene conservanti o additivi di nessun genere, spiega la sua scelta: “Che senso ha continuare a progettare palazzi sempre più alti? È tutta una cosa per nutrire l’ego dei grandi architetti, a me non interessa far vedere quanto sono brava a progettare un nuovo edificio, io voglio usare quello che so per migliorare il mondo, non per peggiorarlo con un altro grattacielo!”.
Secondo Miranda il modo migliore per diminuire la diseguaglianza sociale è agire individualmente
Nel 2012, dopo anni di gavetta passati a lavorare part-time nei ristoranti e a competere per vincere piccoli fondi e realizzare progetti pilota, Miranda ha fondato la sua piccola impresa, così piccola che ha una sola dipendente: lei stessa. Si occupa di sviluppare progetti di design partecipativo in quartieri periferici e non-luoghi di vario genere: un parchetto dimenticato, una sala per la comunità in una casa popolare, l’aula dove si fanno le riunioni per alcolisti anonimi, un marciapiede che scorre tra i casermoni. “Non volevo che il destino delle persone fosse determinato dal posto in cui vivono. Se nasci in un quartiere popolare orribile, e hai intorno sempre cose orribili, come puoi essere una persona costruttiva? Positiva? Allora io organizzo dei progetti in cui le persone ridisegnano i loro spazi, li modificano, li rendono più belli, e sviluppano così un senso di appartenenza e quindi di cura”. Quando le faccio notare che la volontà di diminuire la diseguaglianza sociale evoca politiche di sinistra non mi lascia finire la frase e precisa: “Io non credo in destra o sinistra, o nei partiti politici in generale. Però certo voglio contribuire affinché la diseguaglianza si riduca e ognuno abbia le stesse opportunità”. Secondo Miranda il modo migliore per diminuire la diseguaglianza sociale è agire individualmente nella propria sfera di influenza, e rifuggire qualsiasi forma di delega e generalizzazione
Caterina mi accoglie nel suo studio in una ricca zona residenziale di Milano. Era lo studio della madre, architetto di successo, ma adesso è passato a lei, che da un anno e mezzo produce scarpe. Caterina ha i capelli lunghi raccolti in una treccia, sicuramente meno di trent’anni, e tre computer sulla scrivania. Mi offre dei frutti di bosco e una sigaretta, poi afferma che deve smettere di fumare. Mi guardo intorno, il suo atelier è proprio un bello spazio, glielo dico, e lei subito, sorridendo, dichiara: “Faccio tutto questo perché mi piace, per esprimere me stessa”.
Non avevo dubbi. Caterina spiega che mentre studiava in un famoso istituto internazionale di moda e design non sopportava l’idea del fashion che professori e compagni di corso abbracciavano e promuovevano: “Un fashion fatto o di cose immettibili, innaturali, oppure di roba di qualità infima, da buttare dopo un anno. Il tutto prodotto sfruttando la forza lavoro in paesi come la Cina e la Cambogia”. Caterina cerca di fare le cose in modo diverso: “Io produco in Italia, do lavoro ai pellettieri toscani, produco una scarpa che ti dura negli anni, che va contro l’ideologia consumista”. Afferma che si sente parte di un movimento più grande, che molti giovani non vogliono più vivere nella “società consumistica degli anni ottanta”, che è un modo di fare e stare al mondo che sta morendo. E lei la sua linea di scarpe la fa pensando a questo “cambiamento generazionale”, per fare la sua parte in questa “quasi-rivoluzione che deve ancora arrivare ma che si sta preparando”.
Miranda e Caterina, il cui discorso può essere preso a esempio del sentire di molti innovatori e imprenditori sociali, vedono il “cambiamento” e il “miglioramento” della società come il frutto della volontà di esprimere loro stesse, che a sua volta prende la forma di un’azione imprenditoriale localizzata. Miranda approccia il problema dell’ineguaglianza strutturale della società neoliberale agendo in un determinato quartiere, in una certa scuola, con un certo gruppo di persone. Il suo agire si limita alla sua sfera d’influenza, a ciò che può vedere e fare in quanto singolo individuo. I giovani stilisti che come Caterina sono in disaccordo con i modi di produzione del fashion mainstream sono molti, rifiutano l’idea della moda come mera sfera di consumo perché rifiutano la società dei consumi. Il loro contributo prende la forma di una piccola produzione che cerca di non replicare gli stessi pattern. In gioco c’è l’articolazione di una forma di politica esperienziale, che prescinde o rimuove l’analisi sistemica per diventare espressione di virtù individuali sotto forma di business dalla influenza circoscritta.
Come ho più volte accennato, non c’è quindi più nessun partito e nessuna di volontà collettiva cui sottomettere le diverse individualità. L’imprenditore di se stesso non sottoscrive nessun contratto sociale ma si fa risolutore e innovatore nel suo spazio di azione individuale. Questo è ciò che è permesso dai mezzi imprenditoriali e dalla loro efficacia e autonomia.
L’individualizzazione del discorso politico che prende le sembianze dell’impresa per potersi attualizzare in un’azione autonoma e efficace si definisce come necessariamente limitato alle immediate circostanze e le virtù personali di ognuno. La decantata efficacia dell’imprenditorialità infatti dipende dalla possibilità di esperire direttamente i suoi effetti, e di costruire una soluzione ad hoc per ogni singolo problema o situazione locale. ‘Il governo non può empatizzare con tutta la società, per cui l’azione è lasciata ai singoli cittadini che conoscono meglio i loro problemi’, sostiene un pamphlet pubblicato da Nesta, think tank europea che investe ingenti risorse nella ricerca su innovazione e impresa sociale. Gli autori di questo pamplhet usano proprio la parola “empatizzare” per definire ciò che un governo nazionale non è capace di fare, e da questa incapacità ne conseguirebbe l’inadeguatezza. Questa scelta terminologica è emblematica, empatia infatti significa ‘la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale’.45 Il discorso politico che viene promosso è dunque squisitamente esperienziale: si origina e si esaurisce nell’immediatezza dell’esperienza individuale. La sfera del politico diventa personale, così come la sfera personale diventa politica.
Quel che viene rimosso da siffatti azione e discorso politici è l’analisi sistematica e strutturale delle cause delle problematiche sociali. L’analisi delle politiche economiche neoliberali che producono e si reggono sulla diseguaglianza è infatti troppo spesso assente dal discorso di chi cerca di lenirne i sintomi trovando soluzioni locali. Per esempio i giovani stilisti contro il consumismo e lo sfruttamento della manodopera a basso costo difficilmente prendono in esame la divisione del lavoro che caratterizza l’economia neoliberista globalizzata. Essi ne esperiscono alcune conseguenze, in modo immediato, e in modo più immediato possibile intervengono nella loro sfera di influenza, forgiando una soggettività che dissente, e creando realtà imprenditoriali che rifiutano certe logiche.
Con questo non s’intende suggerire che imprenditori e imprenditrici sociali non siano coscienti del ruolo di un certo sistema economico e politico, ma la loro azione non lo considera, è strutturalmente inadeguata per considerarlo. La mentalità manageriale da problem-solver, laddove si applica alla società, non può fare altro che prescindere da una critica organica alle cause sistemiche. Dovrà invece concentrarsi sull’escogitare soluzioni intelligenti a problemi specifici, che saranno sostenibili se in grado di attrarre sufficienti investitori e clienti. In ultima analisi infatti resta alla logica del mercato il compito di stabilire se una certa soluzione “funziona” o meno.
Il tipo di “cambiamento” sbandierato e augurato da molti discorsi su impresa e innovazione sociale si configura quindi come azione persuasiva, che invece di opporsi alle logiche dell’economia neoliberale cerca di ridefinirle sostituendone i contenuti ma lasciandone inalterata la struttura. Così l’economia imprenditoriale e competitiva viene accettata, purché sia dirottata verso obbiettivi sociali, e la traduzione della sfera sociale in indicatori economici è auspicabile, se tali indicatori servono a misurare e dare valore a azioni con impatto positivo.