Si parte. Sabato mattina siamo in auto verso l’Austria, per arrivare in tempo all’appuntamento di domenica, ore 830 al PraterStadium. Nel corso dei chilometri e degli attraversamenti, quei minuti si moltiplicheranno. E così, senza troppe previsioni, è sabato sera, e siamo a Vienna.
Homo sum, humani nihil a me alienum puto
Terenzio
Dopo due anni, mi rimetto in macchina per attraversare l’Europa. Avevo rimuginato a lungo sul da farsi, dopo il viaggio di Io sto con la sposa. Prima le proteste al confine con la Francia e la richiesta di diritti a Ventimiglia aveva scompigliato le modalità dell’essere rifugiato, e ci aveva chiesto di riflettere. Poi la Grecia, quella spiaggia di Kos dove gli ombrelloni erano stati sostituiti dalle tende della Croce Rossa, e i lettini dalle scatole di cartone. Su quella spiaggia, giusto un paio di settimane fa, avevo conosciuto Mariam e la sua famiglia, tre donne di cui due sotto i quattro anni, partite da Aleppo, passate da Bodrum e arrivate alla marina dell’isola di Ippocrate senza nemmeno un cambio di pannolino. Quegli sguardi, quei bagni in mare, quei giubbotti salvagente ammassati a riva mi avevano fatto tornare indietro, a quella rabbia che mi aveva convinto, nel 2013, a partire, a rischiare. E con quel senso di ingiustizia, sono ripartita.
Lo faccio con le stesse motivazioni della prima volta: da una parte c’è l’amaro in bocca della consapevolezza che nulla è cambiato: in Siria, dove il conflitto continua a martoriare il paese. In Europa, un continente che rimane vecchio e non è riuscito a rimettere mano ai famosi regolamenti di Dublino, che non discutono della titolarità del diritto d’asilo, ma ne vincolano la destinazione. Dall’altra, tuttavia, l’Europa dal basso sta cambiando.
Arriviamo e la scena che ci si para davanti, nel parcheggio del PraterStadium è di un gruppo ibridato da molte persone comuni
Sono bastati due anni perché entrasse in crisi la convinzione che i flussi di persone che attraversano il Mediterraneo, i Balcani, le Alpi non siano più dei pericolosi clandestini. Ne è simbolo l’immagine di Aylan, che ha commosso e indignato le sponde europee come mai fino ad ora. Ne sono la prova provata gli applausi a Monaco di Baviera, e le molte, moltissime persone che ovunque si stanno mobilitando. Come a Vienna. Una chiamata su facebook, che invita a portare coperte, cibo, giocattoli e un’auto capiente.
Arriviamo e la scena che ci si para davanti, nel parcheggio del PraterStadium è di un gruppo nutrito di persone, composto in prevalenza di attivisti autonomi, ma ibridato da molte persone comuni, membri della società civile, pezzetti di Caritas, oppure semplici cittadini. C’è quel clima informale che rende sorridenti gli sconosciuti. Vengono richiesti numero di telefono e targa, per le comunicazioni urgenti.
Vengono consegnati il piano di viaggio e i numeri dell’assistenza legale. Tutto è molto composto, e molto condiviso. Si ammassano al centro del parcheggio i beni di prima necessità, i giocattoli, i vestiti, oltre alle persone che vogliono prendere parte al viaggio ma che non possiedono un’auto. E’ così che conosciamo Sabine, 28 anni, di Dussendorf, ricercatrice all’Università di Vienna, si occupa di sviluppo sostenibile. Sabine inizia così a tradurci ogni comunicazione al megafono, in cambio del posto auto. Il parcheggio è circondato dalla polizia austriaca. A dispetto delle prime impressioni, si trovano lì per proteggere e gestire il flusso di auto, non per condannare l’operazione. Si parte, in direzione Nickelsdorf: il confine.
La polizia ungherese minaccia il pugno di ferro nei confronti degli attivisti
L’Austria, spingendosi verso est, perde la sua natura alpina, e mentre il Danubio risale verso Bratislava, in quell’angolino d’Europa, incastonato tra molti stati i paesaggi si mescolano: colline ventose, piene di pale eoliche; outlet di moda che riproducono edifici ottocenteschi in colori pastello, e nuvole affollate, che si staccano dalla strada di pochi metri, vicine e vigili. In un’ora, siamo a Nickelsdorf, dove il convoglio si allarga, inizia il concerto di clacson e ci si sposta in Ungheria, alla stazione di Hegyeshalom. Il villaggio accoglie stupito l’improvviso traffico che intasa il vialetto della stazione.
A questo punto le comunicazioni diventano confuse: da una parte la polizia ungherese minaccia il pugno di ferro nei confronti degli attivisti, dall’altro si ha la sensazione che i treni stiano ripartendo, e che forse l’ingorgo politico-burocratico che ha tramutato la stazione di Keleti in un campo potrebbe risolversi. Inoltre, il convoglio è diviso: c’è chi vorrebbe portare solo gli aiuti alla stazione, chi arrivare lì e offrire passaggi, chi ancora intercettare le persone in viaggio a piedi, tra l’autostrada e il valico serbo. Se alla stazione di Hegyeshalom si intercettano solamente poche persone, e nessuna intenzionata a seguirci, a Győr invece le strade si separano.
La principale cittadina dell’Ungheria Occidentale era nota come luogo di passaggio dei viaggiatori. In piazza Széchenyi sorge “La casa del tronco di ferro”, un tronco d’albero tutto coperto di chiodi di ferro; una volta chi viaggiava usava lasciare un segno del suo passaggio. I viaggiatori di ieri e di oggi continuano a scegliere la città sui tre fiumi come luogo d’elezione degli scambi e degli incontri. Il corteo ne mantiene la vocazione: dopo lunghe discussioni, nelle quali si evidenziano le anime più assistenzialiste e quelle più politiche di area autonoma che sembrano cercare il conflitto, non tutti sono concordi sul da farsi. In un angolo, un capannello di signori più maturi borbotta risentito rispetto alle informazioni che arrivano dall’Ungheria. Dopo questo confronto, una parte del gruppo si ferma qui, per accogliere le persone che stanno percorrendo l’autostrada a piedi, compagini del corteo di persone partite da Keleti sventolando la bandiera europea.
Un secondo filone si sposta invece al campo dei rifugiati poco lontano. Mentre si paventa di raggiungere Roszke, al confine con la Serbia, dove stanno entrando circa 3000 persone le notizie da Budapest arrivano a confortare: in stazione si aspetta il convoglio, e, a quanto pare, non c’è polizia pronta a fermare gli attivisti. Partiamo, quindi, alla volta della capitale. Appena entrati a Budapest perdiamo il convoglio. Siamo in auto io, Marco e Sabine, senza nessun numero di telefono. Passiamo più volte di fianco all’isola Margherita, cercando un modo per attraversare il Danubio, senza riuscire ad incontrare nessuna delle auto o dei furgoncini che viaggiavano in scia. Dopo alcuni inconvenienti telefonici, grazie ad una mappa zoppicante, arriviamo in stazione. E ci sembra di essere i soli. Tuttavia, lì ad accoglierci, ci sono i siriani, informati dell’arrivo del convoglio e pronti a partire.
Salgono con noi Omrane e Mouhammad ventenni, di Raqqa che vogliono arrivare in Germania
A questo punto, c’è una decisione da prendere. Partire alla volta di Vienna soli o non rendere il viaggio vano, assumendoci i rischi di questa ennesima disobbedienza civile? E ancora una volta tornano le belle parole di Eliot, “In un attimo solo c’è tempo/ Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà/ Perché già tutte le ho conosciute, conosciute tutte:– /Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi, /Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè”. E sono quei cucchiaini che fanno la differenza. Il pensare in piccolo, un pezzetto alla volta, senza farsi sopraffare dal futuro, dal domani, dalle molte possibili o impossibili conseguenze. Il pensare alle centinaia di cucchiaini di caffè necessari per misurare le vite e i viaggi delle persone che transitano a Keleti, tra pacchi di cibo, palloni da calcio, e persone, moltissime. Le distingui dai viaggiatori della stazione perché non hanno quasi mai valigie. E allora non servono altri cucchiaini per misurare queste sere e questi pomeriggi. Si propone un viaggio gratuito, accettando l’improbabilità dei conducenti. Così, di lì a poco, salgono con noi Omrane e Mouhammad, poco più che ventenni, di Raqqa, che vogliono arrivare in Germania.
La Germania è il paese di Sabine, che non riesce a cogliere il desiderio di molti di accettare l’invito di Angela Merkel: “Il nostro è un paese che esclude, forse più dell’Austria. Perché rischiare così tanto per arrivarci?” Perché i viaggi insegnano che si parte per un luogo desiderato, non per i paesaggi o per gli amici, ma per la capacità di fornire dei documenti, di rendere le persone libere di potersi spostare. Omrane e Mouhammad sono partiti 12 giorni fa: passato il confine turco-siriano, hanno seguito la rotta dei balcani. Prima Smirne, poi Samos, Atene, Salonicco, Kavadartsi in Macedonia, poi Serbia, e ancora su, in Ungheria. Arrivati a Keleti stamattina, hanno accettato di buon grado la proposta di passaggio. Partiamo, con l’agitazione che la fa da padrone nell’abitacolo. Pochi minuti dopo, il numero collettivo comunica l’appuntamento al benzinaio fuori Budapest, per la conta delle auto e la ricomposizione del convoglio. Ed è lì, al km28, che ci rendiamo conto che non siamo soli, e che quasi tutte le auto hanno accolto nuovi passeggeri. C’è chi dorme sul sedile posteriore, chi cerca di imparare qualche parola di tedesco.
“It’s all ok? As in the plans?”. Vuole verificare che la paura non abbia prevalso
Arriva Omrane, carico di Redbull, una per ogni componente dell’auto: “Per il viaggio, possono servirci, tengono svegli”. Marco chiede una sigaretta, avendo finito il pacchetto: Mouhammed è raggiante, inizia a offrirle a tutti noi, anche ai non fumatori. Piccoli tentativi di sdebitarsi, perché l’accoglienza non è scontata, anche per chi la riceve. Mentre pago alla cassa, c’è davanti a me una signora che seguo con lo sguardo dall’inizio del viaggio. E’ la più elegante del corteo: altissima, con un pendant fucsia tra il pantalone e il piumino fiorito, è dissonante con la classica immagine dell’attivista. Si chiama Renata, è viennese. Mi guarda dritto negli occhi: “It’s all ok? As in the plans?”. Vuole verificare che la paura non abbia prevalso. Sorrido, rispondo di sì, e che siamo partiti da Milano per esserci. Renata mi abbraccia, felicissima. Eppure il confine ci attende, ma la vicinanza no, quella non teme polizie ungheresi.
Ritorniamo in auto, e continuiamo il percorso in corteo. Il cielo è stellato, e il paesaggio ungherese si riempie di lucciole rosse in movimento: sono le pale dell’eolico, che creano orizzonti luminosi e addobbano a festa il piatto contesto ungherese. E poi, tra una Rita Pavone e un Bob Marley nell’autoradio, siamo di nuovo a Hegyeshalom, senza che le auto della polizia ungherese, incontrate lungo il cammino, ci abbiano fermato. E siamo di nuovo a Nickelsdorf, Austria. Il gruppo si ricompatta. Risuonano i clacson. Siamo meno della partenza ma più di quanto possiamo immaginare. E le persone trasportate sono moltissime.
Non tutte, purtroppo non basta un viaggio coraggioso a risolvere i moltissimi arrivi e i transiti europei, ma sono sicuramente un numero significativo, che intasa la casa-accoglienza della Croce Rossa alla WestBanhof. Siamo di nuovo a Vienna, tra pacchi, operatori, accoglienza. Omrane e Mouhammad sono pronti per ripartire, verso il confine tedesco. E noi pure, con in testa le parole sempre attuali di Terenzio, sul fatto che basti essere umani per sentire che tutto ciò che accade di umano (o di disumano) ci riguarda. E che l’Europa è piccola, e basta poco per attraversarla, e forse non troppo per cambiarla.