La prima impressione è quella che non conta. Qualche anno fa, agli albori dell’emersione a mainstream del fenomeno, la narrazione sulla sharing economy, con particolare riferimento al ruolo delle imprese (esistenti, ma soprattutto nascenti), aveva posto l’accento su alcuni aspetti che sembravano in grado di produrre un cambiamento di portata rilevante. Si parlava di sharing economy come strumento ad alto potenziale redistributivo, in grado di promuovere l’accesso a beni e servizi per soggetti esclusi e al contempo elemento di mitigazione del paradigma economico dominante capace di ammorbidirne gli eccessi perché, mettendo a disposizione beni sottoutilizzati, generava efficienza riducendo al contempo le esternalità negative prodotte dalle imprese.
Sembrava, in un certo senso e osando un po’, che la sharing economy rappresentasse un approccio capace di ridefinire il ciclo di accumulazione del capitale, inserendo nella relazione D-M-D (denaro per ottenere una merce, per generare altro denaro), una potente “R” (relazione) capace, come un granello di sabbia nell’ingranaggio, di rallentarne le distorsioni e di restituire senso al mercato.
E invece, quel che è successo negli ultimi anni è che quella “R” è stata relegata a fenomeni marginali, seppur paradigmatici e ad elevatissimo potenziale di innovazione, e molte grandi corporations – prevalentemente quelle di matrice americana – oggi si muovono nei processi di sharing economy con la stessa disinvoltura (e talvolta cinismo) con cui troppo spesso interpretano il proprio ruolo all’interno del rapporto con la sfera sociale. Forse Morozov aveva ragione: qui non si sta parlando né di redistribuzione né di ripensamento del capitalismo, tutt’altro. Insomma sembra proprio che il vero potenziale dirompente del fenomeno sia dentro quella “R”. Che però, al momento poco importa alle grandi imprese.
Nick Gorenflo, fondatore di Shareable, ha presentato qualche mese fa una delle analisi più lucide sul tema: esistono due approcci al ruolo dell’impresa nei processi di sharing economy.
“La sharing economy transazionale e i suoi processi rinforzano le sperequazioni sociali già esistenti e si basano su relazioni sociali scarse ed effimere. Tutte le transazioni delle imprese che appartengono a questo modello si inseriscono perfettamente nel mercato attuale. L’impresa di questo tipo infatti è una commodity che un ristretto gruppo di proprietari cerca di piazzare sul mercato ricavandone il massimo. L’obiettivo e il vincolo giuridico di queste imprese consistono unicamente nel generare il massimo rendimento possibile per gli azionisti: anche se alcune di queste imprese parlano del proprio “impatto sociale”, legalmente parlando non c’è alcuna missione sociale.
La sharing economy trasformativa è invece quella in cui le relazioni sociali cambiano in meglio, si costruiscono legami solidi e duraturi basati sul supporto reciproco e nelle imprese vengono a crearsi elementi dei Commons – cioè delle cooperative – caratterizzati da una gestione collettiva e comunitaria delle risorse o dell’impresa stessa. Le imprese così costruite hanno l’obiettivo di produrre benefici per la collettività: la stessa impresa, infatti, è una comunità. In queste aziende il fatto di avere un obiettivo “sociale” viene spesso legalmente inserito negli atti costitutivi. Gli utenti sono la ragion d’essere dell’azienda: essa esiste per servirli”.
Insomma, un approccio “predatorio”, volto all’estrazione di valore, contro un approccio “produttivo”, in grado di creare valore. Nel primo caso stiamo parlando di imprese che si muovono ambiguamente sui confini del lecito (per carenza o assenza di normativa) e sui confini dell’etica, e in un’opportunistica evoluzione del sistema capitalistico tradizionale, fanno leva sulla deregolamentazione, sulla riduzione progressiva dei diritti del lavoro, sulla liquidità del mercato dei capitali per replicare in forme moderne il mantra del valore per gli azionisti. Nel secondo caso si tratta invece di imprese come strumento per la generazione di valore (non necessariamente economico, ma soprattutto relazionale) e di impatto sociale, con modalità probabilmente sempre esistite, ma oggi amplificate dalla tecnologia e dalle piattaforme di disintermediazione. Una sorta di riscoperta della vocazione originaria dell’impresa e del relativo ruolo nel tessuto della società.
Va premesso che, parlando di sharing economy, la confusione sotto il sole non è poca. In primo luogo, nel calderone della sharing economy, negli ultimi anni è entrata qualsiasi cosa. L’ultimo tentativo tassonomico è di Rachel Botsman, che prova a fare ordine tra le varie derivazioni semantiche. Ma osservando con attenzione gli sforzi definitori di “sharing economy”, “collaborative economy”, “collaborative consumption” e “on demand economy” disegnati da chi – tra le prime – ha saputo intercettare e perimetrare il fenomeno, balzano all’occhio due fatti. In primo luogo, da nessuna parte emerge chiaramente il potenziale di generazione di impatto sociale dell’idea: né dal punto di vista relazionale, né dal punto di vista della cooperazione, della condivisione, dell’inclusione, del mutualismo. In secondo luogo, tutti gli approcci definitori sono osservati dalla prospettiva del mercato, del prodotto/servizio, del consumo.
Mancano qui angoli di osservazione chiave. Quello della produzione e quello della governance dell’impresa. Sembra dunque che tutta la retorica sulla sharing economy si sia dimenticata un pezzo: la gestione degli asset o dell’impresa stessa può avvenire in forma collettiva o comunitaria, con l‘obiettivo di produrre benefici per la collettività anche grazie al fatto che l’impresa stessa è una comunità. Una comunità tra pari.
Molti fenomeni dicono che tutto ciò è reale: basti pensare alle esperienze di workers buyout o di imprese “employee-owned” (laddove la figura dello shareholder, ovvero dell’azionista di riferimento in senso classico non esiste), fino a fenomeni meno dirompenti quali il crowdsourcing spinto, l’innovazione aperta, la co-creazione e il co-design che rendono lo stakeholder – e in particolare il cliente – parte della catena del valore, fino alle progettualità di “collective impact”, dove diversi soggetti, pubblici e privati, condividono la responsabilità di generazione di un impatto sociale attivando partnership per rispondere ad un bisogno del territorio.
Aprire l’impresa agli stakeholder (siano essi produttori, consumatori, fornitori o altri soggetti) rappresenta uno strumento di democrazia economica, ovvero un sistema di cessione di pezzi di potere, di decentralizzazione delle decisioni, assegnando ad essi una nuova sovranità.
In una parola, il modello di impresa democratica e sostenibile prende la forma dell’”impresa collaborativa”, ovvero un’organizzazione il cui obiettivo sia la massimizzazione del valore per tutta la rete di soggetti che attorno ad essa gravitano (misurato attraverso una multi-bottom line) e che condivida con gli stakeholders mezzi e fini dell’azione imprenditoriale. Questo tipo di organizzazione rende i processi, anche quelli core, un fatto “sociale”, aprendo i modi attraverso cui fa innovazione, gestione e rendicontazione, rimettendo la R al centro, affinchè la relazione (tra produttori e consumatori per esempio) sia fonte di beneficio reciproco, di generazione di impatto sociale, e di reale redistribuzione del valore.