Forse qualcuno ricorda i vecchi video di Andrea Diprè, prima che iniziasse la sua discesa agli inferi del trash: all’epoca, parliamo circa del 2012 ma sembra un secolo fa, l’avvocato riusciva ancora a spacciarsi per critico d’arte. Surreale, demenziale certo, ma soltanto un pochino di più dei televenditori di cui Ezio Greggio già faceva la parodia a Drive In negli anni Ottanta. Insomma Diprè vendeva a caro prezzo degli spazi promozionali sui suoi canali satellitari, rivolgendosi ad aspiranti artisti dei quali tesseva lodi sperticate.
E fu allora che vedendo la sua storica intervista al compianto Osvaldo Paniccia, autore del dipinto “Natura morta con gamberi”, ebbi un’illuminazione: io sono Osvaldo Paniccia. Osvaldo Paniccia è tutti noi. Dilettanti di talento, incompetenti determinati, uomini e donne mediamente straordinari o straordinariamente medi, alla ricerca giocosa e disperata di un po’ di visibilità.
E glielo scrissi, a Diprè. Gli scrissi che lui era la grande allegoria del nostro tempo. La società si era preparata da secoli all’avvento di Andrea Diprè: la sua opera di dissoluzione è insieme un compimento. La sua risposta non tardò: «Mi complimento con Lei per aver colto il senso più profondo della mia missione artistica. La mia, infatti, è l’idea dell’inautentico che diventa autentico».
Oracolare come suo solito, l’avvocato aveva certificato la validità della mia intuizione. Ma che cos’era precisamente questa intuizione? Era qualcosa che aveva a che vedere con la storia dell’industria culturale — una radicale trasformazione di cui abbiamo iniziato a renderci conto nell’ultimo decennio ma che in realtà opera da decenni, forse da secoli. E per spiegarlo bene dovrò prenderla molto alla lontana: dall’invenzione della stampa alla critica della società industriale, dal marketing antisistema alla coda lunga.
Nessuno poteva prevedere come sarebbero andate le cose. Per qualche secolo, tutto sembrava procedere in maniera lineare: innovazione tecnologica, investimenti crescenti, scale di produzione sempre più grosse e uniformizzazione dei prodotti.
L’industria culturale nasce quando un certo Johann Gutenberg, ingegnoso imprenditore di formazione orafo e coniatore di monete, nel 1450 a Magonza s’associa all’incisore Peter Schöffer e al banchiere Johann Fust per fondare una tipografia, portando con sé due buone idee: il torchio e i caratteri mobili.
Nel 1455, Gutenberg stampa la sua celebre Bibbia latina in 180 copie. Sebbene considerevolmente meno cara di un manoscritto (che all’epoca costava pressappoco come una fattoria) il prezzo comunque elevato di 30 fiorini ne riserva l’acquisto a monasteri, università e borghesi agiati. Negli anni seguenti, tuttavia, la domanda si espande e così diminuiscono i costi di produzione: il circolo è virtuoso. Ai caratteri mobili in legno Gutenberg preferisce presto quelli in piombo, antimonio e stagno, più cari ma anche più resistenti, e perciò ammortizzabili sulle grandi tirature: la stampa raffredda velocemente e resiste meglio alla pressione esercitata dal torchio.