Se dieci anni fa fossi andato in giro nei luoghi consolidati della cultura e avessi proposto di fare un camp, nessuno avrebbe capito di cosa stessi parlando. E non è un problema di anglicismi, quanto di come siamo abituati a inquadrare il rapporto tra pratica e teoria, tra studio individuale e scambio collettivo, tra esperienza e riflessione nel settore culturale. Tradizionalmente, in Italia la cultura è sempre stata un’esperienza “sterilizzata”, prodotta nel riserbo dei salotti delle case bene, nelle sale riunioni di case editrici e riviste culturali con posacenere straboccanti, in gallerie d’arte con un sacco di doppi cognomi sulle targhe, in scuole di partito e musei che odorano di chiuso, tra scrivanie di mogano e infissi in alluminio.
Oggi le cose sono abbastanza diverse. Anche nei “mondi della cultura” si sa che il camp è un termine relativamente generico che sta ad indicare uno spazio fisico nel quale le persone si incontrano in modo organizzato per fare qualcosa. Per sporcarsi le mani. Un evento? No, o non solo. Piuttosto un avvenimento, un’esperienza situata. Ma anche un laboratorio, un tavolo di lavoro, un esperimento. Il riunirsi per un tempo definito in un luogo dato con gli obiettivi più diversi, e che pure ruotano sempre attorno ad alcuni punti cardine: conoscere, farsi conoscere, fare domande, cercare risposte.
Nei camp si incontrano (talvolta) persone che non si conoscono, e che pure pensano di avere qualcosa da scambiarsi. Nei camp si usano (prevalentemente) metodologie che strutturano la collaborazione, dandole ritmo e cercando di finalizzarla. Nei camp (spesso) il tempo scade e si ha l’impressione di non essersi detto tutto, di non aver approfondito tutto quello che era necessario, di non aver colto l’essenza delle cose. Nei camp (sempre) ci si permette di farsi investire dalla complessità delle cose; si lavora su oggetti in parte sconosciuti e si prova a mettere tra parentesi quello che si crede di conoscere, perché si cercano altri modi di fare le cose, e nuove cose da fare. In altri termini, ci si apre alla trasformazione.
Perché oggi si, e dieci anni fa no? Per molti versi è sicuramente una moda. Un format apparentemente facile da riprodurre, durante il quale si possono scattare tante belle foto di gente intenta a discutere e a darsi da fare attorno a lavagne e poster, magari armate di post it e pennarelli. “Ehi: stiamo veramente facendo qualcosa!”, ti grida all’orecchio la sequela delle foto tutte uguali ogni mattina dalla timeline del tuo social network preferito. E di sicuro si sente a volte aleggiare attorno ai camp il sapore di plastica del social whashing, la pratica di ritinteggiare con orpelli partecipativi attività che non hanno nulla di innovativo.
Da un’altro punto di vista, la diffusione dei camp è il risultato della stratificazione di decenni di laboratori dal basso, progettazioni partecipate, rituali collettivi di hacking su software, hardware, procedure, metodologie, teorie. Pratiche culturali che per lungo tempo sono state appannaggio di nicchie o subculture, e che oggi sono invece in grado di aiutare a cercare risposte quando le ricette già scritte iniziano a non avere più senso. Risposte parziali, certo; imperfette, prototipate, ineleganti.
Quando si cercano strade nuove per fare le cose diventa necessario comprendere le logiche meno evidenti di mondi che fino a poco tempo prima si potevano tranquillamente ignorare: è il momento di fermarsi, aprire le proprie scatole degli attrezzi e interrogarsi su quello che si fa e su come lo si fa, collettivamente. Che piaccia o no, la complessità del mondo ci si rivela in modo molto meno misurato rispetto a prima. Se vogliamo agire questa complessità non ci si può più limitare a impersonare ruoli scritti per altri, in un passato ormai quasi mitologico: non si può più essere “solamente” un fotografo, un artista, un libraio, un editor, un attore. Tocca mettersi attorno al tavolo con gente diversa da noi, rimboccarsi le maniche e costruire nuovi strumenti.