Niente panico, il titolo è una provocazione. Se i quotidiani cartacei sono davvero fatalmente destinati all’estinzione, allora, tenendo conto del ritmo accelerato delle nostre economie, è certo la loro scomparsa avverrà molto prima del fatidico 2043 sancito dalla “profezia” di Philip Meyer (è noto del resto che questo pronostico aveva nelle intenzioni dell’autore una pura funzione regolativa, un po’ come la data di scioglimento dei ghiacciai per i climatologi…). D’altra parte, se invece i giornali dovranno sopravvivere, allora 25 anni da attendere prima di un rilancio suonano comunque troppi.
Volendo evitare i pronostici, l’unica cosa da fare è affidarsi a un’analisi delle linee di tendenza in atto; magari prendendo qualche punto di riferimento. Come quello rappresentato dalle sorti per molti versi opposte di due settori editoriali “vicini” a quello giornalistico: la musica e l’editoria libraria.
Da un lato, infatti, quello della musica, si è assistito alla progressiva smaterializzazione dei supporti, che sono ormai piattaforme online con musica stockata in anonimi server transnazionali, in una mutazione che ha modificato radicalmente le forme di fruizione e anche di produzione dei contenuti. Dall’altro lato, invece, abbiamo l’esempio di un prodotto rimasto sostanzialmente identico a se stesso da 560 anni (se ci concediamo la semplificazione di tracciare una linea di continuità tra la Bibbia a 42 linee di Gutenberg e i libri di oggi), nonostante tutte le trasformazioni tecnologiche intercorse nel suo processo produttivo. Qui, all’opposto, la trasformazione tecnologica è passata per la filiera produttiva e le forme di distribuzione, senza però intaccare sostanzialmente (almeno finora) l’oggetto-libro.
Così, sulla scorta di questi paragoni, un modo efficace di porsi la domanda sul futuro del giornalismo potrebbe essere chiedersi se i giornali siano destinati a fare la fine del CD oppure quella del libro.
Ci aiutano a rispondere tre pubblicazioni uscite nel corso del 2015, in formati diversi. La rete dall’utopia al mercato, di Benedetto Vecchi per manifestolibri; I giornali del futuro. Il futuro dei giornali, di Pier Luca Santoro per l’editore digitale Infromant e Tiratura illimitata, di Andrea Daniele Signorelli per Mimesis, disponibile in cartaceo e ebook.
Il saggio di Benedetto Vecchi si interroga sul “divenire della cultura della rete”, attraverso una lettura serrata dei principali autori sull’argomento. La prospettiva adottata è quella di una dialettica costante e irrisolta tra, si potrebbe dire, “apocalittici e integrati”. Il che, applicato alla teoria della rete, significa lo scontro incessante tra i giudizi che si danno delle trasformazioni tecnologiche: tra coloro che vi leggono principalmente rischi per i diritti e per il benessere sociale e coloro che, all’opposto, guardano alle innovazioni tecnologiche come evoluzioni antropologiche dalle implicazioni progressive e per alcuni perfino egualitarie.
In questo quadro di insieme vengono messi progressivamente a fuoco tre nuclei tematici di questo dibattito di idee, che di fatto sono anche i terreni su cui si giocano le potenzialità della tecnologia: il lavoro, la libertà e la conoscenza.
La dialettica del “divenire della rete” sembra ruotare attorno a tre assi di trasformazione fondamentali. Quello del lavoro, innanzitutto, ovvero dei rischi e delle potenzialità emancipatorie contenute nella progressiva informatizzazione dei processi produttivi. In secondo luogo, la questione classica del liberalismo politico aggiornata alla versione 2.0: quale libertà per i cittadini in un mondo governato da tecnologie che mostrano spesso implicazioni securitarie non indifferenti? Fino ad arrivare alla questione, se vogliamo più generica, del chiarire se il “divenire digitale” abbia effetti anche sui processi cognitivi, e in che modo: se incrementando la quantità di informazioni disponibili e facilitando l’accesso a esse si produca de facto una democratizzazione del sapere, oppure se, al contrario, la direzione sia piuttosto quella della “standardizzazione” delle conoscenze, se non addirittura di una semplificazione che ottundende le coscienze (ricordiamo la polemica recente sui “cretini digitali”, sollevata da Umberto Eco a proposito di Facebook?).
Queste macro-questioni non sono nuove, ma risultano molto utili per inquadrare nelle giuste griglie il dibattito attuale sul futuro del giornalismo nella rete. Il loro apporto fondamentale, infatti, non sta tanto nella scelta tra l’uno o l’altro approccio, quanto piuttosto nella capacità di assumere la dialettica crisi/opportunità come il terreno sul quale si giocano le sorti dei media come li conosciamo oggi. In altre parole, per interpretare il futuro dei giornali è necessario innanzitutto capire i fondamenti della crisi che attraversano e individuare dove si collochino le opportunità per l’innovazione del settore.
È chiaro che per assolvere correttamente a questo compito non si può prescindere dai dati di fatto; ed è qui che diventano cruciali altri due altri saggi sul tema usciti nel corso del 2015.
C’è un punto comune tra i libri Tiratura illimitata di Andrea Daniele Signorelli (composto da testi apparsi in prima battuta anche su cheFare) e I giornali del futuro di Pier Luca Santoro: è il loro approccio empirico, basato essenzialmente sulla lettura di dati statistici forniti dalle varie imprese e associazioni di categoria e su interviste a protagonisti del settore direttamente interessati dalla trasformazione digitale.
Il primo dato a emergere chiaramente è che la trasformazione non è in corso, ma è di fatto già avvenuta. La frase the content is the king non è uno slogan per il futuro, ma il riassunto preciso del ribaltamento avvenuto dei valori essenziali del dispositivo mediatico, che è passato da una configurazione in cui era la struttura di insieme a dare valore ai contenuti che la componevano a una concezione frammentaria del canale di informazione, dove non conta più tanto l’omogeneità del formato quanto l’efficacia del singolo contenuto rispetto al suo pubblico specifico.
Lo riassume perfettamente Santoro: «Anche il prodotto giornalistico, come ogni altro prodotto culturale, ha subito le conseguenze di una di quelle che io chiamo le “leggi dell’universo digitale”: la progressiva perdita di importanza dei contenitori a favore dei contenuti singoli». Inutile dilungarsi oltre su un fenomeno che tutti conosciamo anche solo come “utenti” di internet e dei vari dispositivi che lo costituiscono, primi fra tutti i social network.
Perciò non si tratta più di essere favorevoli o contrari al digitale, ma già di scegliere in quale direzione della corrente lasciarsi portare, provando magari a cavalcare le tendenze. Scegliendo, in poche parole, come concepire il lavoro giornalistico, come valutare la sua capacità critica e la sua libertà e, infine, come giudicare gli effetti della trasformazione digitale sul settore dell’informazione. «Il vero problema per giornalisti ed editori è che questo processo scardina dalle basi il prodotto, l’organizzazione del lavoro, il modo stesso di pensare che cosa è o può essere il giornalismo».
È possibile sviluppare delle linee guide per orientarsi in questa nuova configurazione dei media? Pare proprio di sì. Esistono infatti dei modelli disponibili, da cui trarre spunto, come fa Signorelli nel suo Tiratura illimitata. Primo fra tutti il native advertising, ossia quella forma di confezione del canale di informazione strutturata sulla promozione di alcuni contenuti “sponsorizzati” da aziende terze interessate a far associare il loro brand a determinati contenuti, non per forza direttamente legati a prodotti o istanze commerciali. Il native advertising nasce dalla crisi del modello pubblicitario classico del pay per click, e costituisce un’opportunità quando evita di scadere nella pubblicità occulta e si trasforma in una modalità di finanziamento della testata basata sull’interessamento di società commerciali alla veicolazione di contenuti di qualità, dove l’interesse commerciale diventa “secondario” rispetto a quello culturale.
Accanto a questo modello, il cui esempio più lampante è Buzzfeed, esistono poi iniziative più classiche, legate al sistema dell’abbonamento a contenuti specializzati e di qualità, come quella del sito francese Mediapart e più in generale di tutte quelle testate di settore che possono avvalersi di una fascia cospicua di utenti disposti a pagare per avere informazioni aggiornate e competenti su un argomento specifico. O ancora, in alcuni casi e su alcuni temi risultano vincenti i modelli legati al mecenatismo puro e semplice, in cui il finanziamento è in massima parte slegato dal prodotto. Ma un dispositivo molto interessante è quello del crowdfunding applicato al giornalismo, che funziona soprattutto per progetti di inchiesta di lunga durata, che trovano beneficio dalle piattaforme di finanziamento sociale a fronte dei tagli sempre più consistenti operati dalle redazioni tradizionali proprio sui reportage.
Al di là dei caratteri singolari di ogni modello, è importante segnalare che in tutti questi casi è sempre la corretta interpretazione delle ragioni della crisi a produrre opportunità di rilancio del media giornalistico; una conferma del fatto che la dialettica crisi/opportunità è la chiave di lettura più adeguata a interpretare il presente.
Ma non solo: tutti i modelli elencati hanno in comune una sorta di correlazione tra la trasformazione dei formati e le modalità di concepire e di effettuare il lavoro giornalistico, per esempio per quanto riguarda i saperi legati alla scrittura (che diventa seo-oriented), oppure la stessa idea di “lavoro inchiesta” (che si lega a committenti terzi rispetto alla testata per cui si scrive). Su tutti questi piani si assiste, da un lato, alla fine dei ruoli e dei modelli ereditati e, dall’altro, all’apertura di prospettive di rilancio che passano per l’adozione di forme di organizzazione innovative.
In fondo, il futuro dei giornali non è altro che il futuro dei giornalisti e dei lettori.
La fine dei giornali di carta non è certa, ma anche ammesso che si possa prevedere certamente non coincide con la fine del giornalismo: gli articoli che appariranno sull’ultimo quotidiano non saranno gli ultimi articoli ad essere scritti. La panoramica delle tendenze attuali ci dice che i nuovi formati dei media nasceranno dagli sviluppi di una dialettica crisi/opportunità applicata alla rete e dalle modalità in cui essa verrà declinata in termini di lavoro, di libertà e di conoscenza.
Perciò, più che chiedersi quando sarà stampata l’ultima copia cartacea di un giornale è più interessante domandarsi chi e come ne darà notizia. Quali saranno i formati dell’informazione del futuro? La sensazione è che lo sapremo molto prima di 27 anni.