Niente sarà più come prima. Nei consumi, intendiamo. Ma siccome i consumi sono parte integrante della nostra vita, qualcosa cambierà anche nella nostra vita di tutti i giorni. L’inchiesta di copertina di questo numero de L’Impresa apre scenari nuovi sul nostro rapporto verso le merci e sulle conseguenze che questi comportamenti avranno, a monte, sulla produzione e quindi su tutta la catena del valore.
Gli esperti da noi interpellati (Enrico Finzi, Francesco Morace, Salvio Vicari) sono concordi nel ritenere non episodica ma strutturale la crisi di questi mesi. Quando gli aspetti più strettamente congiunturali saranno rientrati, resterà comunque un nuovo modo di acquistare da parte dei consumatori: più selettivo, quindi più attento alla qualità a scapito della quantità, e allo stesso tempo più emozionale, dove insieme ai valori intrinseci del prodotto saranno vincenti anche le capacità comunicative, nel senso di empatia e credibilità, del venditore. E il detto “comprereste un’auto usata da quest’uomo?” si estenderà presto a tutti i tipi di commercio. Un modo per riportare l’uomo al centro della scena del business e ridare immagine a una categoria – quella dei commercianti – a torto o a ragione ritenuta responsabile del caro-euro.
Una breve divagazione a margine. Le cronache economiche dell’estate appena conclusa ci hanno consegnato due paradossi, entrambi riguardanti la Fiat: la sentenza dei giudici di Milano sullo stabilimento di Arese e la vicenda “Gingo”.
Nel primo caso, come ha scritto sul Corriere della Sera il celebre giuslavorista Pietro Ichino, è come se il Parlamento avesse approvato una legge che impone al Po di gettarsi nel golfo della Spezia. La linea di produzione dell’auto ecologica ad Arese è stata smantellata sulla base di considerazioni prettamente imprenditoriali, l’obbligo di riattivarla per via giudiziaria si colloca sul piano del puro surrealismo (chissà, se Magritte fosse ancora vivo magari dipingerebbe un quadro dal titolo “Questa non è una fabbrica”). Operazione talmente antieconomica da mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell’azienda, e quindi un numero di lavoratori ben più ampio di quello dello stabilimento lombardo. In questo caso la Fiat ha la nostra solidarietà.
Ma il gruppo torinese ci ha lasciato sconcertati per la seconda vicenda. Ha deciso di ritirare, anzi, ha dovuto ritirare il nome Gingo assegnato alla nuova city car progettata per sostituire la Panda (e della quale, invece, riprenderà il nome) perché la Renault ha minacciato una causa milionaria (in euro) per l’assonanza fonetica tra Gingo e Twingo. C’era bisogno di arrivare a questo punto, a un mese dal lancio della vettura, per accorgersi di una cosa tanto elementare? Cioè che, soprattutto nei mercati internazionali, i due nomi hanno una pronuncia molto simile e chi è arrivato prima non ha alcuna intenzione di farsi soffiare il posizionamento acquisito nella mente del consumatore? Come avrebbe reagito la Fiat se la Renault avesse voluto chiamare “Une” una sua nuova auto? Concentrati sulle grandi strategie di salvataggio – e alle prese con intraprendenti magistrati-imprenditori – a Torino forse hanno perso di vista le basi del