Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona, Marco Biagi. È lunga la lista dei caduti sul fronte del lavoro. Tutti uomini formatisi nella cultura della sinistra riformista che hanno mostrato quanto sia più “rivoluzionario” fare (cercare di fare) le riforme piuttosto che perseguire presunte e infantili rivoluzioni.
Ma non è questo il luogo per discettare sulla natura politica (di destra o di sinistra?) delle leggi e dei provvedimenti elaborati da questi studiosi prestati alla cosa pubblica. D’altra parte, come scrive Antonio Duva nel “focus” di questo numero, sotto il profilo dei contenuti e dei principi ispiratori quella che è stata definita “riforma Biagi” si colloca in una linea di sviluppo di progetti in buona parte avviati sotto i governi di centro-sinistra. E lo stesso Biagi era stato tra i principali collaboratori di Tiziano Treu nella stesura di quel “pacchetto” (1997) che porta il nome dell’allora ministro.
L’approvazione della legge n. 30 del 14 febbraio 2003, dopo un tormentato e in certi momenti burrascoso iter parlamentare, ha scontentato l’opposizione (e questo fa parte del gioco) ma anche autorevoli rappresentanti del mondo accademico, delle cui perplessità dà conto il nostro servizio. Più in generale quello che viene criticato è il mancato collegamento tra la riforma del mercato del lavoro e quella, ancora da affrontare, dello stato sociale. La maggiore flessibilità del primo si scontra con la permanente rigidità del secondo, senza offrire prospettive previdenziali autentiche a un universo crescente e sempre più variegato di lavoratori “atipici”.
Il problema quindi si sposta su più complesse questioni di scenario. Il vero elemento cruciale è il declino della competitività del sistema Italia, come hanno sostenuto Antonio D’Amato e Francesco Bellotti al convegno confindustriale di Torino dello scorso aprile. Tema su cui interviene in questo numero de L’Impresa lo storico Valerio Castronovo, che rileva come ci sia voluta la pesante crisi della Fiat perché la classe politica e l’opinione pubblica si rendessero pienamente conto della parabola declinante della grande impresa (se si eccettuano i gruppi Pirelli-Telecom, Enel e Eni) sia nei settori industriali maturi sia in quelli più avanzati.
L’altro fattore di debolezza è l’eccessivo sbilanciamento della struttura del nostro capitalismo dalla parte delle piccole e delle micro-imprese, che costituiscono il 95% del tessuto industriale italiano. Imprese sempre più deboli nei confronti della concorrenza sui prezzi attuata dai paesi emergenti, e al contempo non al passo con quell’innovazione tecnologica (di prodotto e di processo) che sola permetterebbe loro di mantenere o riconquistare la leadership nei rispettivi settori.
A questa perdita di competitività contribuiscono anche l’arretratezza della Pubblica Amministrazione nel suo complesso (sebbene sul piano dell’e-government, cioè della informatizzazione, si stiano facendo rapidi progressi, come documenta il servizio di Roberto Galullo) e l’inadeguatezza del sistema bancario. Questo non sembra capace di venire incontro alle esigenze delle imprese; tanto più se, come emerge dall’ampia survey curata da Antonio Barbangelo, le nuove direttive per l’erogazione del credito (note come “Basilea 2”) verranno applicate in maniera rigida. Situazione, forse, che aprirà finalmente anche in Italia la strada