Un maître (interpretato da Giancarlo Giannini), nella ‘splendida cornice’ del Palazzo Farnese di Caprarola, offre a noi spettatori il menu della cultura italiana. Un menu che consiste in: archivi e biblioteche; “arte in generale” (sic); siti archeologici; beni storici e antropologici (“per i palati più raffinati”); il cinema, lo spettacolo dal vivo e quello circense, presentati come “alcune delle nostre specialità”; il patrimonio paesaggistico. Lo slogan dello spot è: Italia: il cibo per la mente è in tavola.
Ora, questo catalogo ci mostra innanzitutto come la metafora “gastronomica” continui a ossessionare – anni dopo il “panino” di Tremonti – l’immaginario politico e mediatico in materia culturale. Secondo la retorica diffusa nel discorso pubblico dell’Italia recente (dunque: giacimenti e tesori e volani e indotti…), la fruizione della cultura è sempre e comunque prevista come operazione unicamente passiva: senza intervento né interazione da parte nostra. La cultura cioè viene ancora interpretata e trasmessa come insieme di “beni” (monumenti oggetti manufatti) prodotti in un passato che ha scarse relazioni con noi, con la nostra esistenza, con il nostro tempo: il “patrimonio”. Essa assume così una connotazione decisamente nostalgica (la nostalgia è la qualità fondamentale della passività: la sua temperatura), e non viene riattivata dalla produzione contemporanea.
Dunque, il cameriere esperto che offre educatamente le specialità nazionali da degustare è la figura – non nuova – di uno modo tutto italiano di concepire la fruizione e la produzione di arte e cultura: di uno scenario che, anzi, diventa ogni mese più credibile e realistico. L’Italia – insieme all’intera Europa meridionale, quella non a caso più in difficoltà dal punto di vista economico nell’era della crisi e all’interno del progetto comunitario – trasformata in vacation land. Un unico grande parco di divertimenti, una nazione orientata unicamente all’intrattenimento: l’associazione, l’identificazione tra cultura e turismo nelle diciture istituzionali è d’altra parte ormai da decenni il sintomo di questo processo.
Produrre senso è dunque l’operazione più difficile, in questo momento, nel nostro Paese – mentre interi immaginari che crollano, e niente a sostituirli. Si intravedono solo lampi episodici (nella migliore delle ipotesi). “- Conosce le lingue, un po’ di storia romana? – Hello, madame, fifty euro… Della storia, le assicuro, non importa a nessuno, ai giapponesi, agli slovacchi. Arrivano sotto il Colosseo sfranti di stanchezza e chiedono cinque minuti di simpatia. Vengono da noi come si va in una spa del benessere. In quindici anni di mestiere ho fatto ridere un milione di turisti” (Corrado Zunino, “L’ira del centurione sfrattato dal Colosseo. “E ora chi mi dà 2mila euro al mese?”, “la Repubblica”, 27 novembre 2015).
E non siamo un po’ tutti come questo centurione del Colosseo? La cultura, la cultura italiana, la cultura di oggi, è diventata una spa. Anche da questo molto probabilmente discendono molti degli equivoci dei fraintendimenti delle sovrapposizioni le incrostazioni che negli ultimi anni intaccano la sua percezione diffusa – e quindi i camerieri di lusso nei ristoranti di lusso che declamano il lussuoso menu delle eccellenze italiane.
Forme di innovazione, futures, ricezione
Il tema dell’innovazione è naturalmente al centro di qualunque retorica alternativa a quella appena illustrata. Conviene così ripartire, almeno momentaneamente, da ciò che scriveva Erwin Panofsky in Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale (1960): “Una innovazione – un’‘alterazione di ciò che è stabilito’ – necessariamente presuppone che ciò che è stabilito (lo si chiami tradizione, convenzione, stile, modo di pensare) sia una costante in rapporto alla quale l’innovazione è una variabile. Per poter decidere se una ‘soluzione proposta da un individuo’ rappresenti una ‘innovazione’, dobbiamo ammettere l’esistenza di questa costante e tentar di precisarne la direzione.
Per poter decidere se l’innovazione sia ‘ricca di conseguenze’, dobbiamo tentar di decidere se la direzione in cui si muove la costante è mutata a causa della variabile” (“Rinascimento”: auto definizione o autoinganno?, in Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, Feltrinelli, Milano 1971, p. 18).
Il punto è: possiamo ancora riconoscere, attorno a noi, “ciò che è stabilito”, vale a dire la tradizione come convenzione comunemente accettata, e in rapporto alla quale riconoscere l’innovazione? È qui che si apre ciò che possiamo definire “il problema della ricezione”. Uno degli aspetti più interessanti di come funziona la cultura contemporanea, ed in particolare l’apparentemente indefinibile ‘blocco psicologico’ che ha annullato la ribellione artistica e che inibisce ogni forma di avanzamento o di ‘scarto’ (non solo in Italia), è quello della ricezione.
Sintetizzando al massimo, infatti, la domanda fondamentale potrebbe essere posta in questo modo: come può esistere un oggetto culturale autenticamente rivoluzionario, se non esiste (più) il pubblico adatto a recepirlo e fruirlo? Se gli ascoltatori, i lettori, gli spettatori cioè non sono minimamente preparati e allenati a riconoscere un capolavoro – ma solo oggetti costruiti secondo codici e convenzioni molto rigidi e standardizzati – che fine fa il capolavoro? (E, in ultima analisi, abbiamo ancora bisogno oggi del capolavoro, così come della ribellione?)
Parallelamente, il sistema della cultura contemporanea appare sempre più strutturato secondo lo schema concettuale – e ideologico – dei futures: alla previsione del futuro, infatti, è subentrata la “predeterminazione” di un futuro programmato sulla base delle caratteristiche, dei valori, delle esigenze presenti. Futuro come programma – come procedura – e non come progetto.
Ora, esiste una contraddizione enorme e insormontabile tra la cultura come processo immaginativo contemporaneo (come produzione “vivente”) e un tipo di programmazione che richiede come sua precondizione lo “stare mortale” di cose, opere, individui, idee.
Il futuro in questa versione non è più qualcosa che per definizione non-esiste, ma è qualcosa di predefinito; il futuro è diventato così un presente, identico a quello attuale nelle sue condizioni di base e nei suoi presupposti, che di volta in volta si incarna, si invera nel presente: un presente che “sta” in un’altra zona temporale, e che burocraticamente accade. Un futuro come tempo che si fonda sul medesimo sistema di valori e di convenzioni che regola il presente, e che non se ne discosta invece radicalmente.
La differenza rimane una differenza, per così dire, “geografica”: una distanza tra qui e lì, che si accorcia sempre più fino ad annullarsi e a svanire, più che una differenza irriducibile, inconciliabile e incommensurabile di identità e di modelli. Il futuro non è un tempo ulteriore ma semplicemente un tempo “che-sta-dopo”, che si situa dopo.
È un problema, sempre e comunque, di linguaggio e di percezione. Se oggi ti inserisci dunque – come scrittore, come artista, come regista, come innovatore sociale, come politico – pienamente nella retorica condivisa, è tecnicamente impossibile per te produrre e introdurre nel tuo contesto una reale innovazione (intesa come trasformazione). Eppure, se il tuo pensiero, il tuo discorso e la tua azione seguono una via più ‘corretta’ e procedono del tutto coerentemente su questa strada, allora ti poni automaticamente fuori dal framework e dalla retorica comuni, e ti esponi al rischio di risultare letteralmente incomprensibile.
C’è infatti sempre uno schermo, in Italia: uno schermo che impedisce di vedere, e di sentire, la vita segreta intima profonda. E non quella continuamente raccontata e dispiegata a livello pubblico, ufficiale, istituzionale. Una vita che pure si sta rivelando – in modo del tutto insperato, eppure così naturale, spontaneo – nelle opere e nei processi, per esempio: perché sotterraneamente accade, infatti, che nell’Italia degli ultimi dieci anni siano stati pubblicati alcuni dei romanzi più importanti dell’Occidente, e in pochi se ne siano anche solo accorti?
Anche l’arte visiva, ovviamente, sta esprimendo con fatica risultati notevoli: quantomeno, presagi e annunci significativi di ciò che verrà. Sta producendo cioè senso, che stenta però a essere impiegato in modo fecondo e fertile nel processo di ricostruzione dell’identità collettiva.
O anche solo – se è per questo – a essere riconosciuto. Alcuni tra gli oggetti culturali più significativi non si sedimentano; non ne hanno il tempo. Invece scivolano via dalla percezione comune, si dissolvono (almeno momentaneamente).
Crescita organica, immaginario, transizione
Come si esce da questa impasse? Come si risolve questa contraddizione tra due sistemi di valore incommensurabili? In modo al tempo stesso molto semplice e molto complesso, costruendo con pazienza tenacia e abilità un intero nuovo immaginario in cui far planare, atterrare la psiche collettiva della nazione. L’immaginario è il telaio, la struttura fondamentale in grado di sorreggere un sistema di valori radicalmente alternativo; di costruire i presupposti e le precondizioni per la transizione.
È chiaro quanto e come, per un’operazione collettiva di questo tipo (che richiede certamente tempi lunghi: una ventina o una trentina di anni almeno), sia cruciale riaffermare il potenziale trasformativo dell’oggetto culturale – inteso anche e soprattutto come processo.
La sua capacità latente, oscura, allucinata di intervenire nel tessuto della realtà e delle relazioni umane, per illuminarli e mutarli dall’interno: “L’opera d’arte è una liberazione, ma perché è una lacerazione di tessuti propri ed alieni. Strappandosi, non sale in cielo, resta nel mondo. Tutto perciò si può cercare in essa, purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento” (Roberto Longhi, Proposte per una critica d’arte, 1950).
E in che cosa si sostanzia questa, per ora fantasmatica, transizione? Innanzitutto, è inutile e pericoloso distinguere tra varie tipologie di innovazione: per esempio, non può esistere infatti alcuna innovazione culturale all’interno di una sorta di distopia sociale. Le dimensioni dell’innovazione culturale, politica, sociale, economica si sostengono a vicenda e tendono a sovrapporsi e a coincidere.
Infine, per il momento, diremo che – per portare avanti un tipo di progettazione culturale che davvero si ponga su un piano di esistenza diverso rispetto alle retoriche e alle dinamiche mainstream (come del resto dimostrano gli esperimenti più coraggiosi e riusciti degli ultimi tempi, in settori anche lontani tra di loro) – occorre lavorare: sulla prospettiva di vita di un progetto; sull’infrastruttura di relazioni; sull’articolazione stabile di un sistema organico che cresce costantemente; sulla costruzione di una comunità, capace di mettere insieme le ferite e i traumi con le speranze e il desiderio di rinascere e di rigenerarsi; su un contesto concentrato nello spazio e nel tempo (e in grado di espanderli), che brucia, consuma in quella concentrazione: l’investimento cognitivo e economico, il pensiero, l’evoluzione.
Il modello ideale rimane sempre e comunque quello delle sottoculture: qualcosa che il nostro Paese, non a caso, ha conosciuto a differenza di altri finora in forma unicamente embrionale e subliminale.