Giugno scorso, Roma: in poche ore in una serata di fund raising si raccolgono un paio di di milioni. Non è un partito politico e nemmeno una serata benefica ma il lancio di un nuovo programma di startup da parte della Enlabs, l’acceleratore creato tre anni fa da Luigi Capello con la sua L-Venture e dalla Luiss. Ultimo venerdì dello scorso novembre: il ministro dell’Economia Padoan spiega le politliche di sviluppo del governo, di industria 4.0, di open innovation e sgravi fiscali. Non in una qualche sede confindustriale o finanziaria ma nei locali della H-Farm, l’incubatore e acceleratore di Riccardo Donadon a Roncade di Treviso. Solo indizi, forse, ma non secondari che quello strano mondo di imprese nate sul e per il web e all’insegna del digitale, è uscito dall’ambito colorato del fenomeno di costume ed è diventato un comparto economico a tutti gli effetti.
Dalle grandi idee e dai numeri piccolissimi, si sarebbe detto fino a due o tre anni fa. Oggi le idee sono ancora grandi ma più precise: innovare l’industria italiana. I numeri sono ancora piccoli ma non più impalpabili, visto che i tre maggiori acceleratori italiani, H-Farm, Digital Magics e L-Venture sono oggi società quotate. Le prime due all’Aim, la terza sul listino maggiore dell’Mta. Per le startup innovative italiane si può parlare di boom: nei primi dieci mesi del 2015 hanno raccolto investimenti record per 135 milioni di euro, sono in numero a quota 5 mila (76% in più del 2014), danno lavoro a quasi 30 mila
persone (quanto Telecom Italia, per fare un raffronto) con una fatturato che si avvicina ai 200 milioni. Dietro a questi risultati c’è un settore, quello degli incubatori e acceleratori, che si sta consolidando: hanno acquisito credibilità verso il sistema finanziario (e di qui i maggiori investimenti che riescono ad attrarre), hanno convinto le università ad entrare nella filiera. E ora stanno affrontando il terzo e ultimo step verso la maturità completa e l’inizio di un ciclo di crescita a pieno ritmo: il dialogo con le imprese.
Tutte, dalle multinazionali alle pmi. Da Telecom Italia, che con iniziative come W-Capital, punta a portarsi in casa le startup che le servono, aprendo loro le porte del suo elenco fornitori, alle piccole che iniziano a trovare in incubatori e acceleratori un mercato in cui andare a guardare per trovare le innovazioni di cui hanno bisogno. Se si guarda la mappa delle startup italiane, pubblicate sul sito di Italia Startup, per così dire la confindustria di settore, si vede che c’è una grande X che si sovrappone al centro nord.
Da Torino a Rimini passando per Milano e Bologna. E dalla valle dell’Arno, l’area Firenze-Pisa, verso nordest, fino al trevigiano e al Friuli e lungo l’Autobrennero fino a Bolzano. Più tre isole -Roma, Napoli e Bari – e poco altro in Sardegna, e ancor meno in Calabria e in Sicilia, nonostante il polo catanese. Dentro questa X c’è tutto il meglio del tessuto economico italiano, dalla Fiat a ovest a Luxottica ad est, al turismo adriatico, le metalmeccanica emiliana e pugliese, i servizi a Roma, l’agroindustria un po’ dappertutto.
E’ la prova provata della svolta: l’incubazione e accelerazione di startup sono entrati nel tessuto di sviluppo delle imprese italiane. E anche a monte delle startup, tra incubatori e acceleratori, lo sviluppo e la crescita portano diversificazioni e specializzazioni. E prima o poi porterà anche ad un consolidamento. “Oggi sono attivi in Italia poco meno di 160 tra incubatori e acceleratori spiega AndreaRangone, responsabile dell’Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano – ma sono pochi quelli che possono trasmettere alle nuove imprese che formano e sviluppano un patrimonio di qualità di competenze e di relazioni.
C’è un problema di massa critica: più startup lavorano assieme e più rapidamente crescono contaminandosi tra di loro. E’ proprio un tratto distintivo di questo settore innovativo: se in un piccolo incubatore locale, come ce ne sono tanti, lavorano solo due o tre piccoli team di startupper, avranno meno possibilità di farcela”. Il numero quindi conta.