“Non c’è alternativa” sarà il refrain politico degli anni ‘10 di questo millennio.
È una percezione comune: a questa economia non c’è alternativa, a questa classe politica non c’è alternativa, non c’è alternativa a questa vita. Insomma, non c’è alternativa al presente. Certo, esistono molteplici combinazioni dello stesso assetto, ma, di fatto, l’enorme accelerazione combinatoria che caratterizza oggi i processi umani sembra sempre più corrispondere a una stasi complessiva dei rapporti e della loro capacità creativa e di innovazione: come una eterna corsa sul posto.
La politica sconta molto questa fase di impasse progettuale, e a risentirne, si sa, è soprattutto il grado di partecipazione dei cittadini agli affari pubblici, sempre più estromessi da un sistema che si tiene su se stesso senza bisogno della sanzione del consenso esterno. Per questo motivo sembra a molti che l’unico antidoto per questa piaga è una riaffermazione di un principio di partecipazione politica contro la tecnocrazia.
Tra i progetti più significativi in questo senso spicca il lavoro del filosofo brasiliano Roberto Mangabeira Unger, professore ordinario alla Harvard Law School dall’età di 29 anni, che ha avuto tra i suoi allievi Barak Obama prima di diventare consigliere politico del governo di Luiz Inácio Lula tra il 2007 e il 2009.
L’occasione per provarlo è data dalla recente traduzione, per Fazi, di un’antologia del suo principale lavoro, opera monumentale, omonima, in tre volumi dal titolo: Politics. A work in costructive social theory (Roberto Mangabeira Unger, Politics, trad. di Giuliano Bottali e Simonetta Levantini, Fazi Editore, Roma 2015).
L’ambizione di questo lavoro, in una battuta, è di «ricreare quel mondo della politica, quel dibattito globale che esisteva nel XIX secolo» (John Paul Rathbone Lunch with the FT: Roberto Mangabeira Unger, in «Financial Times», 3 ottobre 2014). Ovviamente, però, ed è la sfida di Politics, senza cadere nella trappola di riproporre schemi antiquati e pratiche fallimentari nel nuovo ordine governamentale mondiale.
Quello che è in questione, infatti, non è un il “ritorno” tale o talaltra formula precostituita, ma semmai quello della creatività politica, della forza di innovazione sociale e dell’immaginazione di nuovi assetti. In altri termini, l’attenzione del lavoro di Mangabeira Unger è tutta incentrata sull’idea che il cuore della politica è costituente e che, quindi, ogni trasformazione deve necessariamente legarsi all’elaborazione di nuove istituzioni (In questo senso il lavoro di Mangabeira Unger potrebbe essere accostato a quello condotto dai francesi Pierre Dardot e Christian Laval nel loro saggio Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015).
Che cos’è Politics, allora? Un immenso progetto di teoria sociale (L’opera originale Politics: A Work in Constructive Social Theory, datato 1987, si sviluppa in tre volumi. Il testo edito da Fazi, nella traduzione di Giuliano Bottali e Simonetta Levantini, è quello del compendio Politics. The Central Texts. Theory against Fate, del 1997.) (con ambizione totalizzante) che, a partire da una concezione integralmente storica della società come creazione umana, intende costruire una nuova (innovativa) prospettiva di una trasformazione dell’esistente. Come? Attraverso un progetto normativo di superamento tecnologico-culturale, si direbbe, più che materiale-rivoluzionario, dell’attuale assetto istituzionale dello Stato, per cui si realizzi quella che l’autore chiama «democrazia radicale».
Per democrazia radicale dovremo intendere, in sintesi, una forma di governo basata sul principio di una “partecipazione aumentata” degli individui alla sfera del politico. Questo orizzonte può realizzarsi solo in una condizione di sostanziale uguaglianza delle funzioni della politica, cioè solo con l’affermazione di una certa genericità dei meccanismi e delle istituzioni della presa di decisione.
Istituzione e conflitto
Lo si è detto: la teoria di Mangabeira Unger è una teoria che tematizza l’innovazione sociale costante, attraverso la trasformazione della cultura e delle pratiche che sottendono alla società. Ora tutto questo diventa possibile in una società in virtù della capacità sfruttare le conflittualità interne a vantaggio dell’interesse comune.
Le fondamenta dell’edificio teorico di Politics sono fatte di un radicale antinaturalismo e antideterminismo. Per il filosofo, infatti, la società è un prodotto integrale degli esseri umani nelle loro differenze storiche e geografiche, in altri termini l’ipostasi di una serie di routine e di valori. È chiaro che in quest’ottica non ha legittimità nessun tipo di ordine naturale: nessuna tendenza “fondamentale” al mercato o alla concorrenza, come sostiene l’ideologia neoliberista, dunque. Ma non solo. Perché il bersaglio è, molto più in generale, l’insieme di tutti quegli approcci orientati alla definizione di invarianti univoci dei rapporti sociali. È ciò che il filosofo chiama “teoria della struttura sociale profonda”, ovvero quella concezione che tende, all’interno di un contesto sociale storico, a determinare una regola ordinatrice di tutti i rapporti sociali e a fissarla come essenza, o come verità, della società in questione, in altri termini come modello astratto indivisibile e ripetibile in altri contesti (secondo questa visione il concetto classico di “capitalismo” risponderebbe a questa logica e sarebbe dunque altrettanto inefficace).
La cosa più grave di tale impostazione, infatti, è che essa restituisce un’idea delle strutture sociali come monadi, perdendo invece di vista tutte le conflittualità intriseche e ineliminabili che sottendono i diversi stili di vita, concezioni e abitudini che invece la caratterizzano in ogni momento.
Il primo passo verso la democrazia radicale, allora, è cominciare concepire la società come un insieme molteplice di tendenze “istituenti”, di «routine» che si riproducono e che spesso confliggono tra loro. Il fatto che alcune di queste routine siano consolidate e costituiscano delle istituzioni riconosciute non deve lasciare credere che non esista un sobbollimento di alternative nel corpo della società.
Seguendo questa lettura, Mangabeira Unger colloca il terreno di costruzione della sua «democrazia radicale» al di fuori tanto del neoliberismo che del marxismo, classico o «postmoderno» che sia, poiché pur volendo utilizzare il metodo della determinazione di una struttura invariante nelle società con la finalità di smascherarne il vero funzionamento e alludere a una possibile liberazione dal meccanismo, nessuno di questi approcci esce dall’impasse del “feticismo della struttura”.
La prospettiva che apre Politics è affascinante proprio per questo suo carattere di ricerca di un’innovazione teorica capace di superare l’impasse della politica che caratterizza l’attuale fase storica, e che in fondo, sembra suggerire il testo, è il prodotto proprio di questo punto cieco della teoria della struttura profonda.
Trasformazione e frammentazione del diritto
Politics rappresenta la società come un insieme dinamico di conflitti e di tendenze istituenti, e il suo obiettivo è fondare una teoria sociale capace di assumere questo intrinseco dato sociale e lasciarlo sviluppare nell’ottica di una trasformazione costante delle istituzioni. Come farlo? La maggior parte di questo corposo saggio è dedicata a pensare le caratteristiche di quell’assetto sociale adeguato alla nuova forma di pensiero radicale che Mangabeira Unger sostiene. Come si è detto, il nodo principale di questa costruzione è la necessità di concepire nuove istituzioni, o, il che è in fondo lo stesso, di trasformare le istituzioni attuali.
Vale a dire: la trasformazione è affare di istituzioni, di processi e di valori costituenti, e il suo motore è innegabilmente il conflitto latente tra diversi poteri costituenti. Lungi dall’illudersi di poterli sedare o risolvere in una dialettica orientata, l’obiettivo dovrà essere quello di mantenerli e bilanciarli traendone un vantaggio sociale complessivo, e allo stesso tempo impedendo che un attore del conflitto possa mai imporsi a tempo indeterminato sugli altri.
Un tale principio richiede un meticoloso lavorio analitico e normativo. Riforme istituzionali, in primis, che garantiscano un aumentato grado di partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive, attraverso meccanismi di decentralizzazione, rotazione e de-professionalizzazione delle cariche minori.
Proviamo a fare un esempio. Lo spaccato migliore di questa impresa teorica è senz’altro fornito dalla proposta di una riforma del diritto e della concezione della proprietà. La democrazia radicale si costruisce dunque a partire dalla frammentazione del diritto di proprietà (analogamente a quanto accade su altri terreni giuridici e istituzionali), e una conseguente suddivisione del controllo sul capitale in diversi livelli di beneficiari e datori. Ciò istituisce, di fatto, un regime di controllo dei movimenti del capitale dove vige il principio della sostanziale inappropriabilità del capitale da parte di singoli soggetti, da ottenersi attraverso un complesso meccanismo di rotazione e di controllo del capitale da parte di fondi sociali di investimento.
L’«immaginazione programmatica» e le prospettive di una nuova sinistra
Come orientare allora tutta questa ricerca? L’obiettivo esplicito di Mangabeira Unger è superare il neoliberalismo e riferirsi alle forze politiche della sinistra, dando loro una nuova alternativa che non sia ricalcata su modelli di società preesistenti. In altri termini, non si tratta di dare un’altra possibilità alla sinistra, ma darle direttamente una possibilità “altra”, totalmente innovativa rispetto agli assetti teorici e politici della sinistra di oggi ( Si veda Roberto Mangabeira Unger, The left alternative, Verso, London – New York 2009)
La trasformazione della società nel senso della giustizia sociale, quindi, significa innanzitutto una «ribellione al fato», cioè il rifiuto dell’idea che non esista alternativa al modello neoliberista contemporaneo, se non una scelta di “opzioni” tra una versione americana, europea o cinese che sia.
Quello che Mangabeira Unger suggerisce è che non ci può essere trasformazione senza una nuova “rivoluzione culturale”, senza che una forza sociale faccia propria una sua «immaginazione programmatica» capace di spezzare l’incantesimo dell’ordinario e immaginare un nuovo assetto della vita degli esseri umani nella società.
Sarebbe interessante mettere in relazione questa immane e meticolosa ricerca di alternativa teorico-politica con quelle, per molti versi affini, che si conducono attualmente sul terreno del concetto di “comune”. Ciò che le accomuna, infatti, è senza dubbio la tesi per cui, per essere efficace e incidere nei processi sociali, ogni atto di innovazione deve necessariamente legarsi alla costruzione di nuove istituzioni per la vita sociale. E vice versa.