Per tutto il XIX e buona parte del XX secolo, sul piano mondiale continua a circolare la concezione per la quale per essere felici occorre cambiare il mondo. La questione da discutere all’interno dell’irresistibile corso di natura rivoluzionaria è allora: come cambiare il mondo?
Ci si accorge alla svelta che la domanda non è semplice affatto, contenendo tre parole piuttosto difficili, ovvero il sostantivo «mondo», il verbo «cambiare» e l’avverbio interrogativo «come». Già da subito ci troviamo di fronte a un sintagma grammaticale complesso. Cominciamo dalla parola «mondo». Cos’è esattamente un mondo o, come ci viene detto spesso, che cos’è il «nostro mondo», il mondo contemporaneo?
Prendiamo un esempio dei giorni nostri: il famoso movimento del 2012 di una frazione della gioventù americana, movimento che si è dato il nome di Occupy Wall Street. Qual è il mondo che questa rivolta, questa sollevazione vorrebbe cambiare? È Wall Street in quanto simbolo del capitalismo finanziario? Chi protestava diceva: «Rappresentiamo il 99% della popolazione, mentre Wall Street rappresenta solo l’1%».
Pubblichiamo un estratto dal terzo capitolo de Metafisica della felicità reale di Alain Badiou (Derive Approdi)
Questo forse significa che il mondo contro il quale protestavano era, al di là della mera economia, il simulacro politico della democrazia, nella quale un piccolo gruppo di gente ricca e potente, mossa dai propri interessi privati, controlla le vite di milioni e milioni di altra gente? Affermavano che la felicità collettiva ha per condizione il porre fine a una «democrazia» nella quale questo piccolo gruppo, l’1%, può decretare la miseria assoluta di milioni di perso- ne che vivono lontani dalle metropoli occidentali, ovvero in Africa o in Asia? Eppure, è anche possibile osservare che gli occupanti di Wall Street erano principalmente giovani uomini e giovani donne della classe media.
Stavano forse protestando contro una vita triste, precaria, una vita priva di un futuro radioso, che è quella di tanti giovani uomini e giovani don- ne delle metropoli del nostro mondo occidentale? E in questo caso la loro richiesta non era tanto di «cambiare» il mondo, piuttosto quella di testimoniare attivamente, per qualche giorno o qualche settimana, di qualcosa di falso e di infelice nella nostra esistenza collettiva.
Ed è allora probabile, come ha dimostrato il seguito, che dietro questa condizione di spirito disperatamente soggettiva non vi fosse alcuna chiara rappresentazione del mondo oggettivo e dei principi del suo cambiamento in una direzione di emancipazione della felicità, della felicità in quanto idea nuova. In verità, ciò che il mondo doveva realmente essere e diventare restava velato da una gioia momentanea del movimento.
Perché «mondo» non è affatto una parola semplice. A partire da quale scala possiamo cominciare a parlare di mondo? È chiaro che occorre definire diversi livelli di generalità, o di esistenza, per capire he cos’è un mondo. Propongo quindi di distinguerne cinque.
Anzitutto, c’è il nostro mondo interiore di rappresentazioni, di passioni, di opinioni, di ricordi: il mondo degli individui con il loro corpo e la loro anima. In secondo luogo, possiamo definire i mondi collettivi costituiti da gruppi formati: quello della mia famiglia, della mia professione, della mia lingua, della mia religione, della mia cultura o della mia nazione. Si tratta di mondi dipendenti da un’identità fissa.
Possiamo anche considerare la storia globale dell’umanità come un mondo. Non si tratta né di un gruppo chiuso né di un’identità fissa, è un processo aperto che include svariate e importanti differenze. Dobbiamo anche considerare il contesto naturale, l’essere inclusi in una natura che abbiamo in condivisione con le pietre, le piante, gli animali, gli oceani…
Questo mondo è il nostro pianetino Terra. E alla fine, al quinto livello, vi sono l’universo, le stelle, le galassie, i buchi neri… Abbiamo insomma il mondo degli individui, che è quello della psicologia; il mondo dei gruppi chiusi, della sociologia; il mondo del processo aperto, che è l’esistenza dell’umanità, o della storia; il mondo naturale, quello della biologia e dell’ecologia; e infine l’universo, il mondo della fisica e della cosmologia.
Passiamo adesso alla seconda difficoltà, il verbo «cambiare». È chiaro che la nostra potenzialità o la nostra capacità di cambiare un mondo è del tutto legata al livello di definizione di questo mondo. Se sono sposato e mi innamoro di un’altra donna, questo può anche definire un cambiamento molto importante dei due primi livelli: il mio mondo individuale – le mie passioni, le mie rappresentazioni ecc. – e il mio mondo familiare chiuso. E senz’altro ciò influisce non poco sulla mia rappresentazione della felicità personale.
A un secondo livello, vi sono molte forme di cambiamento: la rivoluzione, le riforme, le guerre civili, la creazione di nuovi Stati, la scomparsa di una lingua, il colonialismo o persino ciò che Nietzsche chiama «la morte di Dio». A ciascuno di questi cambiamenti corrispondono evidentemente nuove dialettiche della felicità e dell’infelicità. A un terzo livello, quello della storia, vi sono da un lato i concetti contrastanti di progresso, internazionalismo o comunismo e dall’altro di capitalismo come fine della storia, democrazia come universale oggettivo e, dietro questi termini prestigiosi, l’imperialismo oggettivo e il nichilismo soggetivo.
Sono – l’ho già detto – altrettante possibili cornici di una filosofia della felicità, tanto storica e rassegnata che rivoluzionaria e militante. A un quarto livello, abbiamo l’attuale grande dibattito sui problemi ecologici, i cambiamenti climatici e il futuro del nostro pianeta. Una risorsa per una concezione millenarista della felicità della specie umana. Al quinto li- vello non possiamo fare granché: siamo solo una piccola parte, un frammento insignificante dell’universo globale. Eppure, cerchiamo segni di vita al di là del nostro miserabile pianeta forse con la speranza di incontrare un giorno forme del tutto inedite di beatitudine.
Qual è l’esatto significato del verbo «cambiare» in tutto questo? Ritengo infatti che le distinzioni e le definizioni che abbiamo siano troppo imprecise per fornirci un significato chiaro dell’espressione «cambiare il mondo». Dopo tutto non è vero che un mondo può cambiare in quanto totalità. Occorre vedere le cose in funzione dei diversi livelli semantici della parola «mondo».
Un individuo può cambiare per tutta la vita, ma alcune parti delle suo mondo soggettivo sono invarianti, così come alcuni tratti del suo corpo o alcune formazioni psichiche fondamentali determinate dall’esperienza dell’infanzia. Possiamo superare i limiti dei nostri gruppi chiusi, ma non possiamo evitare del tutto di essere determinati da un’origine, una lingua e un retroscena culturale della nostra nazionalità. La stessa cosa vale per un’azione compiuta in una storia aperta o per gli sforzi nel modificare o preservare l’ambiente naturale.
In qualunque circostanza geografica o storica, si può osservare la possibilità di un cambiamento locale in modo determinato, possono poi esserci conseguenze di questo cambiamento locale, talvolta conseguenze a lungo raggio con successivi rimaneggia- menti tanto della rappresentazione quanto nel reale della felicità. Un cambiamento non compare mai immediatamente in modo chiaro come «cambiamento del mondo». È ritenuto grande o piccolo relativamente a questo mondo, unicamente in forma retroattiva, attraverso le conseguenze che ha suscitato.
Prendiamo il famoso esempio della rivoluzione bolscevica in Russia nell’ottobre 1917. Il grande giornalista americano John Reed ha scritto un racconto di questa rivoluzione al quale ha dato il titolo I dieci giorni che sconvolsero il mondo. Ma di che mondo si tratta? Certamente non era un completo rovesciamento del mondo capitalistico, come Marx o Lenin sognavano (Lenin era convinto che la rivoluzione russa fosse solo il principio di un processo globale del quale la seconda tappa sarebbe stata la rivoluzione in Germania). Sia come sia, questo evento locale ha avuto conseguenze di lunga portata. Ha assunto il ruolo di riferimento di base per qualunque attività rivoluzionaria e ha rappresentato una parte importante – dall’Unione sovietica alla Cina comunista passando per la guerra del Vietnam o per Cuba – del «mondo del XX secolo». Ma durante la seconda metà di questo secolo abbiamo di fatto assistito al crollo di tutti gli «Stati socialisti» che si erano sviluppati sull’onda della rivoluzione bolscevica del 17. È dunque solo oggi che possiamo capire il titolo del libro di John Reed. Certamente una parte del mondo è stato scrollato dalla rivoluzione russa.
Certamente le sue conseguenze a lungo raggio permettono di definire questo evento un cambiamento reale, un considerevole cambiamento. Ma in fin dei conti il mondo globale di oggi è dominato dal capitalismo quasi in modo identico rispetto al mondo che ha preceduto questo evento. Possiamo allora concluderne che il maggiore cambiamento politico del XX secolo non ha «cambiato il mondo».
Di conseguenza, anche per capire l’avverbio «come», propongo di sostituire all’idea di «cambiare il mondo» un complesso di tre parole, di tre concetti: l’evento, il reale, le conseguenze. Provo ora a spiegare nel modo più chiaro possibile questa terminologia filosofica e il suo legame con il problema più generale della felicità.
L’evento è il nome di qualcosa che si produce localmente in un mondo e che non può essere dedotto dalle leggi di questo mondo. È una rottura locale nell’ordinario divenire del mondo. Sappiamo che in genere le regole del mondo producono una specie di ripetizione dello stesso processo. […] La forza di un evento risiede nel fatto che esso espone qualcosa del mondo che restava nascosto, o invisibile, perché mascherato dalle leggi di quel mondo.
Un evento è la rivelazione di una parte del mondo che non esisteva precedentemente, se non in forma di un vincolo negativo. E la correlazione tra questa rivelazione e il problema della felicità è chiara: poiché si tratta della rimozione di un vincolo, all’istante per tutti coloro che subivano quel vincolo senza riconoscerlo emergono chiaramente possibilità inedite di pensiero e azione. Ecco una definizione possibile di felicità: scoprire in se stessi una capacità attiva che si ignorava di possedere.