Il mondo si divide in due categorie: quelli che mettono la testa sotto la sabbia e quelli che invece la tengono fuori e scrutano l’orizzonte intorno a loro.
I primi sono coloro che di fronte all’avanzata delle nuove economie e al crescere dell’immigrazione globale vorrebbero alzare infiniti muri di Berlino (dazi, misure protezionistiche e cordoni sanitari di vario tipo). I secondi sono quelli che cercano di volgere la sfida in opportunità e invece di attardarsi in battaglie difensive passano al contrattacco o tentano di fare business con il potenziale nemico.
In questo numero de L’Impresa affrontiamo il problema Cina, e tutti i nostri testimoni (Cesare Romiti, Mario Zanone Poma, Gianfilippo Cuneo, Maria Weber e altri) concordano sul fatto che la risposta protezionistica non solo non è sufficiente, è inadeguata. Il nostro paese deve spostare la competizione sui suoi asset a più elevato valore aggiunto (design e know how in genere) e, sull’altro versante, inventarsi qualcosa di competitivo per intercettare l’imponente flusso turistico che dalla Cina sta per riversarsi in Europa (Francia e Spagna sono già in vantaggio su noi).
Piangersi addosso non serve a niente, scavare trincee ancora meno (poi si scopre che chi lamenta la contraffazione dei propri prodotti non ha esteso alla Cina – per risparmiare – la protezione di marchi e brevetti che, com’è noto, è valida solo per le aree geografiche per cui la si è richiesta).
Il secondo fronte è quello dell’Europa a 25, il più grande mercato libero del mondo con 455 milioni di cittadini, 74 in più rispetto all’Europa di fine aprile 2004 e un prodotto interno lordo ormai molto vicino a quello degli Stati Uniti. Anche qui, a chi teme il dumping sui costi di produzione, si può ribattere che l’ampliamento a paesi con tasso di crescita superiore al nostro e avvicinamento a standard di consumo occidentale crea un mercato di nuovi consumatori per le imprese che decidessero di costruire o consolidare la loro presenza commerciale e produttiva in tali aree.
Naturalmente non sono tutte rose e fiori e aumenterà anche la concorrenza da parte dei paesi della “vecchia” Europa a 15 (ce li vedete i tedeschi lasciare senza combattere a noi e ai francesi il boccone dell’Est?), eppure non ci sono alternative. L’unica arma è l’innovazione, di processo e di prodotto. La cultura “valligiana” della chiusura, la cultura del castello con fossato e ponte levatoio non è più adeguata alle sfide del mondo contemporaneo. Pensare che tutto si risolva con i dazi non solo è inutile, è stupido.
Ancora una volta dobbiamo ospitare in questo spazio il saluto a un amico che ci ha lasciato. Nelle scorse settimane se n’è andato all’improvviso Claudio Demattè, uno degli innovatori più lucidi del pensiero e dell’azione manageriale nel nostro paese. Come studioso, formatore, consulente, banchiere, grand commis pubblico (Rai, Ferrovie) ha lasciato il segno in ogni cosa di cui si è occupato, dimostrando sempre un’indipendenza di pensiero e un orgoglioso senso del fare – e del fare