Più l’economia mondiale è interconnessa, più è globalizzata la società. Non sono solo le merci ad attraversare paralleli e meridiani, ma anche gli esseri umani. Si muovono i “cervelli” alla ricerca del luogo migliore dove esprimere il loro talento, ma si spostano da un paese all’altro, da un continente all’altro anche masse di persone “non qualificate” in fuga dalla povertà dei loro paesi di origine. Tra le grandi nazioni europee (Gran Bretagna, Germania, Francia) l’Italia si ritrova buona ultima ad affrontare un’esperienza che altri, pur con le difficoltà e le contraddizioni tipiche di tutti i grandi fenomeni sociali, hanno già metabolizzato. E se dimostra di avere una sufficiente cultura dell’accoglienza, non altrettanto si può dire di quella dell’integrazione. Così, soprattutto nelle zone a più forte industrializzazione, l’opinione pubblica si divide sul giudizio relativo all’immigrazione: utile alle fabbriche ma pericolosa per la società. Una cultura chiusa, “valligiana”, riedizione più radicale e complessa dell’atteggiamento dei torinesi verso i “terroni”, senza i quali negli anni Cinquanta e Sessanta non ci sarebbe stato il boom economico della città e dell’intero paese.
Questo numero de L’Impresa dedica il suo servizio di copertina proprio al problema dell’integrazione delle culture nel contesto delle aziende. Il primo contributo, quello di Mario Gibertoni, analizza il problema da un punto di vista sociale e antropologico prima ancora che organizzativo: le differenze di etnia, religione, comportamenti della vita quotidiana possono diventare – se gestiti con l’apertura mentale necessaria – altrettante opportunità. A conclusioni analoghe giunge anche il secondo contributo, quello di Frédérique Silvestre e Marina Viganò, più focalizzato sul versante manageriale della questione: le differenze di cultura specifica (lingua, formazione, esperienze professionali) garantiscono alle imprese quel ricambio del sangue senza il quale non ci sarebbero nuove idee, nuovi progetti, nuovi prodotti.
Al manager del nuovo millennio si chiede un approccio da Marco Polo, caratterizzato cioè dalla consapevolezza che il mondo è fatto di diversità, interculturalità, apertura verso l’Altro. E che ogni cultura trasmette le proprie credenze e sistemi di valori, da mettere a disposizione della mission aziendale. In questo contesto diventa centrale il ruolo delle direzioni del personale, oggi generalmente – se si escludono le più importanti multinazionali – impreparate ad affrontare il problema dell’integrazione culturale e organizzativa degli extracomunitari e dei “diversi” in genere. Problema che diventerà più delicato quando ai lavoratori manuali si affiancheranno quelli intellettuali che già premono sia dall’Europa dell’Est sia dall’Oriente e stanno cominciando a occupare spazi soprattutto nell’area informatica.
Questo mentre in Italia, come a livello più alto in Francia, si discute di laicità dello Stato e ci si combatte, spesso con armi sporche, sui problemi quotidiani dell’integrazione degli “altri” nella nostra società. Una adeguata presa di coscienza da parte delle imprese – al di là del pragmatismo di cui comunque non si può fare a meno – e un pronunciamento forte dei loro leader potrebbero aiutare il processo di integrazione. Un processo che va a vantaggio dell’intera società.