Alcune settimane fa è stata pubblicata la valutazione su scala mondiale dei dipartimenti di Arts & Humanities condotta dal Times Higher Education (THE), un mensile inglese dedicato al mondo universitario e della ricerca. Si tratta di un ranking prestigioso che valuta un settore del sapere che versa da anni in grave difficoltà. Le facoltà di Lettere e Filosofia nel mondo, e in generale il sapere umanistico, sono da tempo sotto attacco. La critica riguarda la spendibilità di questo tipo peculiare di formazione in un mondo che sembra avere sempre più bisogno di tecnici e meno di teorici. In particolare si raccomanda che se ne possa fare a meno quando questi ultimi sono studiosi di letteratura e filosofia, — a cosa servono?
C’è stata un’ampia difesa del sapere umanistico, con argomenti diversi, dal fortunato libro di Martha C. Nussbaum, Not for profit- Why Democracy Needs to Humanities, Princeton, 2010, (Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, Bologna, 2011) a quello di Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile (Milano, Bompiani, 2013). Se tutti denunciano la crisi del sapere umanistico e lanciano appelli, come quello di Asor Rosa, Esposito e Galli della Loggia sulla rivista “Il Mulino”, pochi si fanno carico di una risposta avanzando delle soluzioni a questa crisi ridefinendo natura e scopo del sapere umanistico nel XXI secolo. Eccellente il documento prodotto dalla Arts & Humanities Division di Harvard costato diciotto mesi di lavoro e condotto da un team di professori sotto la direzione di un filosofo, Sean D. Kelly, e da uno studioso di letteratura inglese, James Simpson: Mapping the Future. Qualcosa che sarebbe opportuno fare anche in Italia.
Guardando un po’ più in là della propria ombra sembra che la questione della crisi delle discipline umanistiche sia più complessa di quanto appaia e che essa interessi il futuro stesso dell’università così come l’abbiamo concepita fino ad oggi — non solo quello della cultura umanistica (ho già discusso questo punto su Che fare). Ne ha scritto in modo esemplare il politologo americano Benjamin Ginsberg, professore alla John Hopkins University di Baltimora, nel suo libro The Fall of the Faculty: The Rise of the All-Administrative University and Why It Matters, Oxford University Press, 2011. Comunque, al di là dalla trasformazione in atto nella knowledge economy verso il modello università-industria, tornando al nostro ranking delle facoltà di Lettere e Filosofia, c’è una buona notizia di cui dovremmo essere soddisfatti e orgogliosi: l’Italia ha tre facoltà tra le prime cento, Sapienza Università di Roma (42), la Scuola Normale Superiore di Pisa (60), l’Università di Bologna (82). Non dobbiamo valutare questo come un magro risultato, è vero che la Germania conta undici facoltà ma la Francia solo due (Paris 1 Panthéon-Sorbonne e l’École Normale Supérieure), quattro l’Olanda, tre la Spagna, due il Belgio e la Danimarca, una l’Austria, la Finlandia, la Svezia e l’Irlanda. Ovviamente dovremmo prendere come riferimento per il futuro più il modello tedesco, se non quello britannico (con venti facoltà tra le prime cento), anziché quello francese.
Abbiamo meno risorse finanziare dei tedeschi, ma non meno talento e capacità. Il sistema italiano, fortemente decentralizzato con grandi tradizioni in università di provincia, potrebbe costruire una rete di eccellenza come quella tedesca oppure simile a quella olandese (il terzo sistema al mondo per qualità della formazione universitaria dopo quello statunitense e quello inglese). In fondo gli Stati Uniti hanno venticinque facoltà A&H tra le prime cento quindi, facendo un rapido calcolo, il sistema europeo unificato dopo la riforma di Bologna (contando per una questione geo-politica anche le università della Gran Bretagna), dovrebbe essere considerato il primo al mondo.
Certo, il sistema nordamericano (e sarebbe giusto per affinità di spirito allora includere qui anche quello britannico) si conferma ai primi posti con Stanford, Harvard, MIT, Berkeley, Chicago, Columbia, Princeton, Yale (con Oxford, Cambridge e UCL nella top ten), ma l’Europa, con la sua vecchia tradizione che pensa l’istituzione universitaria come un luogo di trasmissione piuttosto che di produzione di sapere, tiene e si difende. Almeno sulla cultura classica. Ovviamente questi dati sono interessanti se visti da una certa distanza poiché la differenza tra università simili è solo una questione di decimali. Dobbiamo tuttavia partire da qualcosa che ci permetta di riarticolare e di definire nuovamente il sapere umanistico di fronte a un mondo che cambia (e anche a fronte di un calo sempre maggiore di neoiscritti e lo smarrimento dei neolaureati, le due facce della stessa medaglia).
Per quello che ci riguarda, notiamo che rispetto allo scorso anno Lettere e Filosofia della Sapienza ha fatto un balzo in avanti saltando dal 77° al 42° posto, il che non solo la conferma come la migliore facoltà in studi umanistici del Paese ma tra le prime 50 nel mondo. È difficile capire cosa sia avvenuto in solo un anno per giustificare un tale successo, ma tant’è. L’altro fatto importante è l’ingresso della SNS di Pisa tra le prime cento. Questi dati dovrebbero dunque indurre il Governo — ma direi lo Stato — a investire in modo strategico sulla nostra capacità di descrivere e precisare col linguaggio la nostra esperienza cognitiva ed emotiva, valutare il mondo che ci circonda sapendo articolare criticamente i significati delle espressioni e delle azioni per formare giudizi pratici. Perché questa è la peculiarità e il valore del sapere umanistico, che si riflette ovviamente nell’atto di comprensione di una poesia o nella cognizione del nostro passato ma che non si riduce a questi e che non può essere difeso solo con argomenti da anime belle.
Se davvero si volesse investire in questa risorsa, andrebbero corretti innanzitutto i punti deboli delle università italiane: la loro scarsa internazionalizzazione (esportiamo ma non importiamo e non attiriamo studenti, né ricercatori stranieri), i salari bassi dei docenti rispetto alla media europea, particolarmente dei ricercatori. Un elemento che ovviamente non attira gli stranieri. Andrebbe incoraggiata una maggiore mobilità nazionale e internazionale a tutti i livelli, favorendo allo stesso tempo il reclutamento internazionale. Inoltre l’intervento andrebbe concentrato a poche università, le migliori, creando un sistema di eccellenza. Siamo un paese piccolo e non possiamo pensare di avere venti facoltà umanistiche tra le prime cento al mondo, ma se riuscissimo ad averne almeno sei o sette nei prossimi dieci anni sarebbe già un buon risultato e attirerebbe studenti stranieri — e probabilmente anche capitali.
Dovrebbe passare il messaggio che, se per ogni altro tipo di formazione si può andare un po’ ovunque, per la formazione umanistica è in Italia che bisogna necessariamente passare. Ma questo non si ottiene con gli slogan, ma con i fatti sui quali gli altri ci giudicano. Per rendere questo possibile dovremmo credere di più in noi stessi, riconoscere i nostri errori e migliorare il sistema. Le potenzialità le abbiamo, o almeno questo ci suggeriscono i dati. Dobbiamo trovare la volontà e il coraggio di accettare la sfida.