In un bell’editoriale pubblicato su Studio, rivista di cui è co-fondatore, co-editore e direttore, Federico Sarica ha utilizzato la recente e applauditissima copertina del settimanale americano New York Magazine (quella con le donne che hanno accusato Bill Cosby di stupro, per intenderci, questa) per una lunga digressione su cosa è — o, meglio, cosa dovrebbere essere — un magazine oggi.
«Passi gran parte del tempo, in quanto direttore e co-editore di un piccolo giornale periodico che ha l’ambizione di cavalcare questi tempi di enormi cambiamenti mediatici (e non solo), a cercare di spiegare che quel che fai non è solo una rivista, è un media brand (suona male, scusate, ma rende l’idea), il quale cerca di ricostruire un modello di business attorno all’antico mestiere di raccontare delle storie a chi le vuole leggere, ascoltare, vedere», ha scritto Sarica, che questo concetto lo va ripetendo da anni, gli stessi anni che hanno visto chiudere o ridimensionarsi alcune tra le più importanti testate, italiane o internazionali, dopo un’emorragia continua di lettori e di risorse (e, di conseguenza, anche di qualità).
Le espressioni da sottolineare qua sono tre: media brand, modello di business, storie. Teniamole bene a mente quando andiamo ad analizzare un panorama, come quello dell’editoria periodica indipendente, che forse non è mai stato così in fermento, grazie alle possibilità offerte dal web (per la promozione e la vendita) e da piattaforme (vedi alla voce crowdfunding) che permettono di finanziare dal basso, rivolgendosi direttamente ai lettori e potendo in certi casi addirittura fare a meno delle pagine pubblicitarie.
Quasi ogni settimana nascono nuove riviste (parliamo sempre della scena cosiddetta “indipendente”) e solo pochissime di queste finiscono nelle edicole, entrando piuttosto nei canali delle librerie specializzate, dei bookshop dei musei, dei concept store, dei negozi specializzati in questo tipo di editoria (già relativamente diffusi nel mondo anglosassone e in Nord Europa); alcune, più rare, preferiscono bypassare la distribuzione tradizionale e affidarsi solo al web.
Tutte questa riviste, o quasi, hanno un tratto comune: la scelta di dare più spazio possibile alle storie, ai contenuti di qualità, al cosiddetto long form journalism, spesso specializzandosi in piccole/piccolissime nicchie di argomento, di genere, di pubblico geolocalizzato. Accanto ai soliti temi come i viaggi, il design, l’architettura, la moda, l’arte, la gastronomia, la letteratura, sono nati veri e propri micro-temi come ma l’eros con velleità intellettuali (Odiseo, Secret Behavior, Adult), le serie tv (Sixteenbynine), la tipografia (Gratuitous Type), le foto di moda non “photoshoppate” (Pylot, Bare Journal), l’urgenza creativa (Offways), gli studi e gli atelier degli artisti (Studio Journal Knock), la vita degli oggetti banali (MacGuffin), i giovani talenti del design (Fiera), l’openhousing (Openhouse), la psicogeografia e la “flâneurie” (Maps, Flaneur, The Collettive Quarterly), gli stagisti (Intern e Assistant), le persone coi capelli rossi (MC1R), l’antropologia per non antropologi (Peeps), lo sport innalzato a Cultura con la C maiuscola, gli animali e i proprietari di animali (Cat People, Pet People, Four&Sons, Puss Puss), il caffè (Standart e Drift), l’omofobia (Handkerchief), gli uomini che amano altri uomini (Hello Mr.), la gastronomia gay e punkettona (Mouthfeel), la cucina cinese (The Cleaver Quarterly), le birre artigianali (Hop & Barley), il running (Like the wind), il surf (Acid), i viaggi nel tempo (The Future Chronicles), gli stereogrammi (Brewster), i segreti inconfessabili (Guts), l’understatement (Au Courant), la ricerca dell’identità (Le Roy),…
La lista è sicuramente incompleta e potrebbe allungarsi ancora di molto. Cosa ci dice, però, questo? Che la diretta conseguenza della sconfitta delle riviste generalista ha dato il via a una sorta di frenesia nel circoscrivere sempre di più il proprio pubblico. Anzi, a far addirittura coincidere, quando possibile, gusti, ideali, background e talvolta pure provenienza geografica del lettore con quelli di chi il magazine lo costruisce. E non sempre questa si rivela la ricetta giusta.
Il punto è che le storie, per quanto ben studiate, raccontate e confezionate, non bastano a garantire il successo e di conseguenza la sostenibilità di un progetto. Ecco perché, accanto a un tasso di “natalità” così elevato, anche quello di “mortalità” non è da meno, e continua a mietere vittime, soprattutto dopo i primi due o tre numeri. Ecco perché, di nuovo, accanto alle storie bisogna considerare gli altri due punti: media brand e modello di business.
Pioniere e ispiratore di questa linea di pensiero è stato Tyler Brûlé. Canadese (ma inglese d’adozione fin dagli anni ’80), corrispondente di guerra in Afghanistan per un magazine tedesco — con tanto di ferite di guerra — Brûle fondò nel 1996 Wallpaper , che diventò presto una sorta di “Bibbia” nel mondo del design e che Brûle vendette l’anno successivo alla Time Warner, intascando un milione di sterline ma mantenendo la carica di direttore editoriale fino al 2002.
Fu proprio in quegli anni che cominciò a sviluppare una strategia e a lavorare parallelamente a una media agency (tuttora attiva), Winkreative, che diventò il trampolino di lancio per la sua “creatura” più importante, la rivista più venerata e imitata degli ultimi anni: Monocle.
Primo, vero media brand di un settore di cui ancora oggi rappresenta il cosiddetto benchmark, Monocle non è soltanto una rivista con uffici in mezzo mondo (coordinati dal quartier generale di Londra, la Midori House), ma anche una radio, una serie di negozi (compresi due cafè, uno a Londra e uno a Tokyo), un marchio (appiccicato su prodotti realizzati in esclusiva e in collaborazione con altri brand: borse, accessori, abbigliamento, profumi, prodotti per la casa), una casa editrice che in aggiunta al magazine e ai numeri speciali estivi e invernali pubblica pure guide di viaggio e agli affari e manuali per gentlemen, oltre a diversi eventi organizzati nel mondo, tra cui pure un mercatino natalizio.
Quando Sarica ha scritto «leggere, ascoltare, vedere (storie)» si riferiva proprio a questo: un media brand non passa solo dalla carta o dal sito web, dagli espositori dell’edicola o da uno smartphone.
È la costruzione di un marchio una delle rotte per costruire un modello di business sostenibile. Che è, più in piccolo, quello che stanno facendo molte realtà, anche in Italia.
A seguire l’esempio di Monocle c’è appunto Studio, attraverso sito, numeri speciali solo in digitale o un evento come Studio in Triennale.
Ma c’è anche chi — godendo di “buona salute” come Offscreen, che tratta di web companies e lavori legati alla rete — di tanto in tanto si permette di sperimentare modelli di business (a fine 2014, ad esempio, ha dato la possibilità ai lettori di scegliere quanto pagare la rivista proponendo varie fasce di prezzo; il risultato dell’esperimento è stato interessante: c’è stato chi ha scelto di pagare un prezzo inferiore a quello della soglia di sopravvivenza del progetto e chi invece è andato molto sopra, per una media che più o meno ha coinciso con quella del solito prezzo di copertina) pur non rincorrendo la “crescita ad ogni costo“ e, anzi, preferendo starsene comodo nella propria nicchia assieme a uno zoccolo duro di lettori fedeli.
Punta invece sul design e sulla struttura dei contenuti un titolo dedicato all’universo femminile come Riposte, che in ogni numero ospita 5 idee, 4 incontri, 3 storie lunghe, 2 saggi e 1 icona e, pur essendo nato da poco, si è già portato a casa diverse nomination per la progettazione grafica e ha vinto un European Design Award.
Ne vincesse uno Cookbook, di premio, non si saprebbe a chi consegnarlo. Ogni uscita infatti (soltanto una all’anno) viene totalmente affidata a quello che loro chiamano uno “chef” ma che è in realtà un artista o un designer, che sceglie in completa autonomia gli ingredienti (i contenuti), l’impiattamento (la grafica), e persino la brigata (i collaboratori). Una cosa simile a quanto già sperimentato da tempo da A Magazine Curated By, che però tratta di moda e fa curare ogni numero a un fashion designer differente, che racconta il proprio mondo attraverso le pagine della rivista.
Anche se la vera rivoluzione, ultimamente, la stanno vivendo quelli che una volta si chiamavano “house organ” — i giornali aziendali — che dopo anni di decadenza hanno imparato la lezione e sono andati a scuola dalle riviste indipendenti per offrire proposte editoriali davvero interessanti per comunicare il marchio attraverso contenuti che esulano spesso dal brand in sé ma ne raccontano, in maniera intelligente il mondo che c’è attorno. Qualche esempio? Pineapple (di Airbnb), che però è arrivato dopo di Guestbook (onefinestay), oltre a The Happy Reader (Penguin), che ha trovato il modo di raccontare la letteratura classica in maniera pop, il nuovissimo Mondial (Rapha) che parla di ciclismo e nella copertina del primo numero ha voluto fare un omaggio alla nostra Gazzetta delle Sport e infine — per rimanere in Italia — illywords (Illy), che esiste già da anni ma che è stato completamente rinnovato nella grafica e nell’approccio ai contenuti.
Chiudo con una provocazione, quella lanciata da Gym Class, che non è propriamente un magazine ma una fanzine che parla del mondo legato all’editoria periodica e, per gli addetti ai lavori, è una sorta di oggetto di culto. La copertina dell’ultimo numero, uscito lo scorso marzo, titolava a caratteri cubitali: “nobody care about your oh-so-cool kickstarted tactile minimalist unoriginal magazine”, prendendosi gioco di tutti quei progetti tanto simili tra loro —per grafica, contenuti e target (più o meno hipster) — da sembrare quasi delle fotocopie.