Cup contro Colap. Raffaele Sirica contro Giuseppe Lupoi. Vecchio contro nuovo. Protezionismo contro libero mercato. Corporazioni di privilegiati contro nuovi professionisti senza protezioni. Albi contro associazioni e “registri”. Così, schematizzando in maniera semplicistica, si potrebbe sintetizzare la spinosa questione della riforma delle professioni. Da sempre attesa, da sempre promessa, da sempre rimandata. Forse perché il Parlamento, a destra, al centro e a sinistra è pieno di medici, avvocati, giornalisti, notai, ingegneri, architetti, psicologi (alcune delle professioni inquadrate negli Ordini), mentre è povera la rappresentanza di revisori dei conti, giuristi d’impresa, esperti informatici, consulenti tributari, webmaster, internal auditor, art director, consulenti di direzione e organizzazione, esperti di relazioni pubbliche, operatori della pubblicità, rappresentanti di commercio, solo per limitarsi alle professioni d’impresa non regolamentate?
Insinuazione maliziosa, potrebbe dire qualcuno, ma è senz’altro una chiave di lettura possibile. Una tra le tante, ma non più peregrina di altre (ad esempio il fatto che il giro d’affari dei contributi obbligatori degli Ordini sia di oltre 500 milioni di euro, cifra tutt’altro che disprezzabile). Altrimenti come spiegarsi il tormentato e per certi versi grottesco percorso della cosiddetta Riforma Vietti, ultimo in ordine di tempo nell’elenco dei tentativi di adattare la legislazione alla realtà? L’11 marzo il testo definitivo del provvedimento era stato inserito all’interno del decreto per la competitività. Un primo pallido timido tentativo di riconoscimento delle professioni non regolamentate. Fatto sta che a distanza di un mese il governo (dove il ministro-ingegnere, o ingegnere-ministro Castelli non è sempre stato in sintonia con il sottosegretario Vietti, su questo come su altri temi) ha presentato un maxi emendamento al precedente decreto legge, che rimette in discussione alcuni concetti chiave. Riuscendo, a dire il vero, a scontentare gli uni e gli altri. Con la differenza che gli uni (gli Ordini) il loro sistema ce l’hanno già, gli altri no.
Tutto ora è fermo in commissione Bilancio del Senato, mentre la situazione politica è in una fase di grave incertezza: mentre scriviamo non è ancora nato il Berlusconi bis, ma se nascerà non sembra certo questo un problema da riportare agli onori del dibattito parlamentare in una fase di fine legislatura in cui si sta ben attenti ad affrontare questioni di tale delicatezza e rilevanza lobbistica.
Anche se sul sonno delle nostre istituzioni grava la minaccia Bolkenstein, cioè la direttiva approvata nel gennaio 2004 che prende il nome dal commissario olandese al mercato interno della Commissione Prodi, attualmente all’esame del Parlamento europeo. Se diventerà esecutiva i singoli Stati saranno costretti ad abbattere le barriere burocratiche e i vincoli al libero espletamento delle professioni, aprendo contestualmente al libero esercizio delle professioni stesse all’interno dell’Unione Europea. In particolare cadrà l’esclusiva nazionale sulla prestazione del servizio.
Comunque vadano le cose nel breve, nel medio periodo il problema dovrà essere finalmente e definitivamente affrontato. Perché i numeri sono rilevanti. A fronte di 1 milione e 700 mila iscritti agli ordini, il Cnel stima altrettanti operatori di professioni non regolamentate; 3 milioni e 800