Spinte da i due potenti discorsi sull’innovazione sociale e la sharing economy e da politiche pubbliche dedicate, le città competono sempre più “sul mercato delle risorse straordinarie” (Pasqui, 2001), siano esse di provenienza comunitaria, nazionale, regionale o ‘da mercato’, attraverso forme d’azione collaborative orientate all’innovazione sociale. In questo momento Milano o Bologna sono attraversate e hanno a loro volta prodotto una molteplicità di pratiche (al tempo stesso input e outcome di queste politiche) che le hanno decretate star del momento e le due città più smart d’Italia.
Anche se la Regione Puglia non rientra in questa classifica, forse colpevole di aver intercettato il fenomeno con troppo anticipo e quindi impossibilitata a farsi spingere dal trend del momento, continua a rappresentare un modello interessante e da cui prendere spunto. I continui riferimenti al contesto nazionale non inducano all’errore. Non si tratta di un fenomeno periferico e localizzato in uno o più dei PIGS, come testimoniano i numerosi articoli al riguardo che compaiono frequentemente sulla Stanford Social Innovation Review o su The Economist.
Come capita di frequente quando un fenomeno esplode rapido e potente, anche in questo caso è altissimo il numero di attori che si stanno interrogando sui perché, i come e i risultati di queste politiche: accademie, media, istituzioni, organizzazioni non profit, practitioners e attivisti alimentano un discorso pubblico che si fa sempre più stratificato e diversificato. Tentando di mettere ordine pare di poter scorgere due schieramenti, come avviene spesso in Italia su una molteplicità di argomenti.
Da un lato ci sono i più, per i quali queste politiche riportano al centro le relazioni coinvolgendo il capitale umano, orientano l’innovazione tecnologica al sociale e in ultima istanza producono la leadership di un nuovo modello di sviluppo attraverso forme di innovazione politica. Dall’altro lato un gruppo più sparuto ma non meno tenace che mette invece l’accento sui lati oscuri della sharing economy, dell’imprenditorilità sociale e delle pratiche partecipative. Il primo gruppo mette l’accento sulla necessità di fare, anche a costo di sbagliare o di produrre alcune derive tecniciste, pur di trovare nuove forme di connessione tra economico e sociale. Il secondo gruppo tende a dimenticare che molte di quelle stesse pratiche sono presenti e determinanti nella loro stessa storia.
Chi, come fanno i membri di entrambi i gruppi, tenta di approcciare criticamente il fenomeno tende a cercare di identificare le ragioni di una posizione sull’altra. Non si tratta di una questione nuova e forse è inevitabile. Già nel 2001 in Il territorio delle politiche. Innovazione Sociale e pratiche di pianificazione Gabriele Pasqui, riprendendo Balducci (2000), scrive “come la lettura delle nuove politiche urbane in un’ottica di governance possa spingere in due direzioni interpretative: la prima sottolinea l’eclissi del pubblico e la degenerazione liberista nei processi di governo; la seconda indica la prospettiva della self-guiding society (Lindblom, 1990) come orizzonte di possibilità dell’azione pubblica”.
Ma se invece non si trattasse di capire quale delle due parti ha ragione ma di riconoscere che i due aspetti sono entrambi connaturati al fenomeno? Per cercare una risposta a questa domanda provo ad utilizzare la lente interpretativa offerta da Sulla rivoluzione (Arendt, 1963). Si tratta di un testo che propone una riflessione teorico-politica sulla rivoluzione attraverso la comparazione tra i fallimenti delle rivoluzioni francese e russa e il successo (parziale) della rivoluzione americana.
Non intendo proporre una sovrapposizione tra innovazione e rivoluzione. Le condizioni materiali e sociali contemporanee hanno allontanato l’innovazione dalla rivoluzione, anche se entrambe incarnano “la capacità umana di novità”. Mi interessa piuttosto concentrare l’attenzione su quanto la Arendt propone nell’ultimo capitolo del libro, La tradizione rivoluzionaria e il suo tesoro perduto, che si basa integralmente su alcune criticità individuate già da Jefferson (1743-1826).
Se il cominciare qualcosa di nuovo si prefigge fin dall’origine di stabilizzare quel nuovo, si pone allora un problema inevitabile: “se la fondazione era lo scopo e il fine della rivoluzione, allora lo spirito rivoluzionario non era più semplicemente lo spirito con cui si incomincia qualcosa di nuovo, ma lo spirito con cui si avvia qualcosa di permanente e duraturo. E una istituzione stabile, che incarnasse questo spirito e lo incoraggiasse a nuove imprese, avrebbe alimentato in sé i germi della propria rovina” (Arendt, 1963).
Questa prima parte del ragionamento parrebbe dare ragione ai critici delle pratiche collaborative per l’innovazione sociale: condotte verso le priorità di stabilità di governo non possono che assumere i connotati di strumenti di gestione del potere. Si tratta però di una vittoria di Pirro, perché lascia totalmente aperto il problema di come stabilizzare il nuovo una volta introdotto. Per tentare di affrontarlo diviene allora centrale la seconda parte della riflessione proposta dalla Arendt, per la quale le repubbliche elementari di Jefferson, le sociétés révolutionnaires francesi e i soviet russi, oltre ad essere una ricorrenza spontanea di ogni rivoluzione, rappresentano “una forma di governo interamente nuova, con un nuovo spazio pubblico per la libertà, che veniva costituito e organizzato nel corso della rivoluzione stessa”.
Si trattava di organi spontanei che miravano a salvaguardare lo spirito rivoluzionario in seguito all’affermazione di governo della rivoluzione stessa, consentendo “ai cittadini di continuare a fare ciò che avevano potuto fare durante gli anni della rivoluzione: ossia agire di propria iniziativa e partecipare agli affari pubblici via via che si dovevano trattare di giorno in giorno”, cioè una partecipazione diretta.
Se da un lato la Arendt attribuisce ai partiti rivoluzionari l’incapacità di comprendere la novità introdotta dal ‘sistema dei consigli’, dall’altro riconosce che “L’errore fatale dei consigli è sempre stato quello di non distinguere abbastanza chiaramente tra partecipazione alla vita pubblica e amministrazione o gestione delle cose nel pubblico interesse”.
È quindi nei consigli (e non nelle innovazioni o nei governi) che si incarna il dualismo di partenza tra produzione di nuovo e governo dell’esistente e il suo continuo ripresentarsi nella storia è il continuo riproporsi di quello che la Arendt, appunto, chiama ‘sistema dei consigli’ e che a me non può che far pensare a tutte quelle persone e organizzazioni, più che istituzioni e governi, che in questi anni si stanno aggregando attorno ad alcuni temi, interessi e confini comuni a partire da migliaia di pratiche di innovazione sociale che stanno sperimentando in ogni angolo del paese, continuando ad interrogarsi sulle ragioni e gli impatti di quelle stesse pratiche, consapevoli che “Ogni volta che il sapere e il fare si separano, lo spazio della libertà va perduto” (Arendt, 1963).
Indipendente dalla collocazione sull’asse istituzioni-società, è proprio all’interno di questa contraddizione (novità-governo) che si stanno sperimentando forme di (auto)governo e di (auto)organizzazione che promuovono la libertà di agire la sfera pubblica (Arendt, 1958. Vita Activa) nella ricerca della felicità. Stabilire quale essa sia e a chi spetti identificarla è alla base della ricerca stessa.