Nelle nostre città è quasi un segno dei tempi, un’infezione che aggredisce il derma più sensibile dei nostri centri storici : accampamenti improvvisi, nati per durare pochi giorni, poche ore, un repertorio di forme archetipe, grossolane, perlopiù tendoni, piccoli, medi, grandi, strutture gonfiabili affette da gigantismo, che invadono le piazze più belle imponendosi senza grazia. Ogni luogo viene piegato senza riguardo alla caciara e alle logiche di un molesto Gran Bazar.
Secondo le classificazioni di Edwin E. Lewis, James F. Campbell e Michael V. K. Sukhdeo , curatori della raccolta di saggi “The Behavioural Ecology of Parasites” (CABI, 2002) , potremmo definirli forme di interazione biologica di natura trofica, un fenomeno di comune parassitismo fra due specie di organismi di cui uno è detto parassita e l’altro ospite.
Sono diventate forme particolari di simbiosi urbana, non mutualistica, il parassita trae un vantaggio, nutrimento e protezione a spese dell’ospite, creandogli un danno biologico.
A cosa mi riferisco è facile intuirlo, capita dappertutto, in ogni città e sotto gli occhi di tutti, costantemente, in un repertorio infinito di vistosi allestimenti promozionali che vanno dalle grandi aziende, alle compagnie telefoniche, alle case automobilistiche sino alla fiera di ognicosa. Una deriva irreversibile dal variabile grado di sciatteria intorno alla quale negli ultimi anni in molte comunità urbane si è acceso un dibattito sempre più stringente.
Queste infezioni sono benigne o maligne?
Il Consiglio Comunale di Torino, dopo anni di olimpica tolleranza, ha improvvisamente deciso per suo conto: sono maligne.
E così lunedì scorso ha votato e approvato la quantomeno drastica e per certi versi inaspettata decisione di vietare ogni forma di allestimento temporaneo (siano questi commerciali, promozionali o sportivi) nelle piazze auliche del centro storico. La decisione farà certo discutere, gli argomenti in gioco sono molti, a partire dall’eccezione che la Città di Torino ha voluto riservarsi, con deroga, ad esclusivo appannaggio e valutazione del Sindaco, di approvare allestimenti specifici in casi di particolare rilievo. C’è chi poi ha già rilevato una certa aridità del provvedimento a scapito dell’ineludibile vocazione di incontro e di scambio e di ogni altra forma di socialità propria degli spazi pubblici più significativi della città. Con buona pace di Giorgio de Chirico c’è chi sostiene che non è possibile congelare questi spazi ad una visione metafisica.
A partire dalla complessità di queste contraddizioni forse è possibile imbastire delle prime riflessioni su quelli che potranno essere in futuro gli scenari e le forme evolutive del fenomeno. In primo luogo è bene sgomberare il campo, almeno per ora e chissà per quanto ancora, dalla possibilità di trasferire questo tipo di manifestazioni in altre parti delle città.
Salvo rarissimi casi non è cosa facile in ragione dell’assoluta assenza di quei fattori di rappresentatività, densità dei flussi e qualità della scena urbana offerta dai centri storici.
Rimanendo sul caso Torino, senza con questo discostarsi molto da cosa capita in altre città italiane, e soprattutto se di Torino andiamo ad analizzare i quartieri di ultima generazione nati lungo la Spina Centrale, in nessun caso si osserva l’affermarsi di nuovi spazi pubblici (ma nemmeno di nuovi toponimi riconosciuti) connotati da caratteri di qualità ambientale idonei alle manifestazioni a carattere temporaneo. Anche nel caso più conclamato e felice del grande riparo dello “strippaggio” di Parco Dora assistiamo ad un modello di spazio pubblico che può risultare seduttivo e attraente a patto che la manifestazione sia in grado di attirare autonomamente i flussi necessari di cittadini, vedi i casi delle grandi adunanze del festival tecno Movement o la celebrazione del Eid al Fitr per la fine del digiuno del Ramadan.
È una storia vecchia, questi quartieri, nascono con un baco, intorno ad un fuoco generatore innescato da grandi contenitori commerciali, gestiti, dalle principali catene della grande distribuzione, appositamente per giocare il loro ruolo di luoghi onnivori. Un impianto pensato per assolvere il bisogno di città in cattività, a margine delle sterminate batterie di registratori di cassa, con forme di spazi pubblici pedonali climatizzati dove è sempre primavera.
Non è forse un caso se le stesse aziende che investono per gli accampamenti nei centri storici, negli altri quartieri ricerchino le stesse intensità di flussi allestendo i loro corner promozionali lungo le vie di gres porcellanato dei centri commerciali.
E questo felice abuso degli spazi disegnati da Juvarra, Bernini e i Castellamonte non è forse la più dolorosa conferma della reclusione (o auto reclusione?) della cultura urbanistica contemporanea all’interno degli atenei?
Questa situazione potrebbe difficilmente migliorare: molte città europee e in particolare Torino hanno negli ultimi vent’anni investito moltissimo nel recupero ambientale e architettonico dei loro centri storici. Le progressive pedonalizzazioni delle piazze storiche, così come la rigenerazione funzionale del sistema museale hanno contribuito all’affermazione di concentrazioni di flussi turistici così intensi da costituire un prezioso ambito di mercato che non aspetta altro di essere cannibalizzato da tende e baracche.
Nel suo insieme questa densità genera la percezione di un disagio (non solo visivo) capace di snaturare il valore espressivo e simbolico di molti luoghi unici.
Non potendosi certo escludere anche ragioni di natura progettuale, visto che spesso questi allestimenti rispondono quasi esclusivamente a parametri quantitativi, strettamente funzionali e stringenti sulle normative di sicurezza.
Parametri che precludono alla progettualità di essere competitiva coi cataloghi di forme e materiali, offerti dai produttori di allestimenti standard; un repertorio di prodotti messi a punto e testati nel tempo proprio per favorire, durabilità, velocità costruttiva e agile stoccaggio.
Così ci ritroviamo quasi sempre, di fronte a strutture semplici a capanna o tunnel, realizzate con carpenterie metalliche zincate, di un grigio stanco, pavimenti improbabili e tamponature impermeabili di teli in pvc, del tutto opache e se va bene di colore bianco.
Non tutte le colpe però possono essere riferite solo alla povertà del catalogo allestitivo, spesso vi sono anche errori grossolani nel progetto di impianto, nei rapporti di scala con il contesto, nell’incapacità di inserirsi con la dovuta grazia, attenzione e misura negli spazi preesistenti.
Queste ultime considerazioni introducono necessariamente l’importanza delle procedure in difesa della qualità del progetto. Cambiate le regole, il futuro riserverà scenari del tutto inediti, verso i quali gli allestimenti temporanei negli spazi pubblici dovranno attrezzarsi.
Non può e non deve essere sufficiente vietare.
Possiamo accettare che le comunità urbane della nostra società rinuncino alla possibilità di realizzare allestimenti temporanei di qualità? che siano rispettosi della storia e anche espressivi della contemporaneità?
Difficile crederlo, più probabile immaginare una correzione di rotta, credere sia possibile modificare i parametri in gioco, rivedere i modelli, le tipologie e i servizi che questo tipo di manifestazioni hanno sinora richiesto. Fare le cose brutte e male non costa necessariamente meno che farle bene e belle, e tutt’alpiù sbrigativo.
È giusto forse farne meno, lasciare più in pace le nostre piazze più belle, destinare budget più congrui a garanzia di una reale qualità progettuale. I segni e i linguaggi della contemporaneità devono assumere una propria legittimazione responsabile, densificarsi di significati e affermarsi sul piano espressivo e simbolico.
La qualità ambientale e la buona architettura di una città, anche quella più effimera e transitoria, sono il risultato di un complesso processo, al quale devono concorrere i saperi e le professionalità di molte discipline, dalle scienze sociali a quelle più specificatamente tecniche. Un osservatorio diffuso di interpretazione dei fatti urbani potrebbe proddurre riflessioni sul territorio e diffonderne conoscenza condivisa con i cittadini. Estendere a tutto il territorio, in maniera profonda, la conoscenza dei luoghi e delle comunità che li abitano e li usano, consentirebbe di isolare e mettere a punto interventi di rigenerazione costitutivi di reali nuove centralità e spazi pubblici riconosciuti alternativi a quelli della città storica. Solo un confronto aperto e pubblico può nutrire i contenuti di bandi di gara trasparenti e concorsi di progettazione realmente premianti.
Prima ancora che politica la questione si pone sul piano etico. Secondo questa logica il testa coda di una città come Torino, in molte occasioni raccontata come un modello nazionale, parrebbe scoprire il fianco di una contraddizione profonda.
Può sorgere il dubbio che gli oltre dieci anni di sperimentazione dell’Urban Center, fra i primi fondati in Italia, e del City Architect, nati come soggetti terzi, espressione della società civile a garanzia di reali procedure partecipate, siano stati concepiti come il cerone per mascherare opzioni, sempre negoziate in tavoli di retrovia con le verticali della politica.
Sin qui nulla di nuovo, il punto dolente, sul piano culturale è che dietro al fallimento delle politiche urbane si posa intravedere proprio la debolezza e dipendenza della “società civile” proprio dalla politica. Ovvero la sua incapacità di garantire un’effettiva autonomia alle competenze e consolidamento ai metodi. La strada della cooptazione, pur lastricata di buoni propositi, quando non persegua autonomia e autorevolezza rischia di scivolare in una società civile “assistita” dalla politica. Non e che da un lato rivendichiamo autonomia, ma poi, ci attendiamo sia la politica a remunerare un asservimento?
Andrebbe perseguita una cultura della gestione urbana diffusa, che animi un confronto aperto sul significato e i valori del bene comune e degli spazi pubblici, capace di cimentarsi con l’etica, un’etica, più etiche, in un percorso di emancipazione dei cittadini dalla politica partitica.
Ancora la scienza può aiutarci a trovare nuove definizioni, descrivendo la direzione verso cui tendere come il processo di una metamorfosi del parassita e dell’ospite in organismi simbionti, che vivono un rapporto con altri organismi vivi, diversi e traggono reciproco vantaggio dalla vita in comune, ciò che comunemente definiamo una naturale simbiosi, ovvero il buon gusto di non adattarsi a vivere ai margini di colonie inurbane di parassiti.