La prima volta che sentii utilizzare la parola resilienza fu nel 2010 ad un convegno che tesseva le meritate lodi della capacità della cooperazione sociale di resistere all’onda d’urto della crisi. In un primo momento credetti di averla confusa con le parole residenza o resistenza, ma ci misi poco a raccogliere le prove che confermavano la mia prima impressione. In rete si trovava già un’ampia sitografia, anche se fu necessario attendere il 2013 perché in Italia la fama della parola esplodesse con tutta la sua forza, attraverso una lunghissima serie di post, articoli, approfondimenti ed eventi.
Come messo in evidenza dall’Accademia della Crusca (2014) “la parola resilienza ha guadagnato, negli ultimi anni, una sorprendente popolarità, tanto improvvisa da favorirne la percezione come di un calco dall’inglese”. Attraverso un processo di traslazione (Czarniawska-Sevon, 1996; 2005) il concetto di resilienza si è spostato dall’ambito tecnico-scientifico a quello dell’ecologia, della sociologia, dell’economia, della psicologia etc. Marco Belpoliti (2015) ne ha tracciato un’ottima sintesi in Resilienza: l’arte di adattarsi.
Volendo indagare il significato letterale della parola diviene evidente che ne esistono soltanto il sostantivo e l’aggettivo:
resiliènza s. f. [der. di resiliente]. – 1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale.
resiliènte agg. [dal lat. resiliens -entis, part. pres. di resilire «rimbalzare»]. – 1. Dotato di resilienza, che presenta maggiore o minore resilienza: materiali r.; pavimenti, rivestimenti resilienti. 2. Per estens., riferito a persona, che oppone resistenza, che si difende con forza: Schiacciata sotto il peso del corpo mascolino, Line si torceva, avversario tenace e r., per eccitarlo e sfidarlo (P. Levi).
(Fonte: Treccani)
Nell’italiano, l’origine verbale dal latino resilire è stata elisa. Il fatto che il sostantivo o l’aggettivo non abbiano nella medesima ‘lingua’ un proprio verbo di riferimento non ne ha pregiudicato la ‘potenza’, anche se ci si sarebbe potuti aspettare una minore capacità d’impatto rispetto a quelle parole che declinate all’imperativo o all’infinito sono già di per sé stesse appropriate non solo per descrivere un’azione ma per agirla (Austin, 1946; 1962) in modo performativo.
Non è andata così. Mentre scrivo sono seduto su una postazione di un coworking ubicato in uno spazio pubblico riattivato, gestito da una cooperativa sociale che, per sopravvivere, si è letteralmente e imprenditorialmente inventata una funzione d’uso di un immobile chiuso a seguito del progressivo smantellamento di alcune politiche locali di welfare. Insomma, che piaccia o no, un pezzo rilevante degli attori del welfare sociale e culturale con la resilienza ci devono e ci sanno fare i conti.
Recentemente, indagando le traiettorie degli innovatori sociali, lo hanno messo bene in luce Consiglio e Zabatino (2015) scrivendo che “Vivere e lavorare nella marginalità viene considerato più come un atto di resistenza, un passaggio alla resilienza”.
Salvo praticarla ampiamente come condizione necessaria e (auspicabilmente) transitoria, alcuni di quelli che oggi sono impegnati in processi di innovazione sociale e culturale, quando sentono parlare di resilienza vorrebbero dire, come hanno fatto alcuni residenti di New Orleans, “Stop calling me RESILIENT. Because every time you say, ‘Oh, they’reresilient’, that means you can do something else to me. I am not resilient”.
Non è una questione di spocchia, perchè resilire non è facile. Come ha ben fatto notare Flaviano Zandonai nel 2013 in uno dei suoi anticipatori, sintetici e arguti post su Fenomeni, per essere resilienti serve essere robusti (resistere allo stress senza deteriorarsi), ridondanti (sostituire un elemento compromesso con un altro) e rapidi (accedere e utilizzare velocemente le risorse disponibili).
Posso contemporaneamente dire di fare nuovo welfare o cultura e affermare di sostituirmi al servizio pubblico cancellato?
Il problema non è neanche la nostalgia per forme verbali come resistere o rivoluzionare, i cui sostantivi derivati sono certo carichi di una tradizione storica più in linea con le ambizioni di molti innovatori sociali o culturali, malgrado come sostiene la Arendt (1963) siano state minate fin dalla loro nascita a causa della connessione diretta con l’esperienza fallimentare della rivoluzione francese.
Non è neanche un problema squisitamente etimologico, anche se qualche problema questa prospettiva lo pone dato che “il verbo resilire si forma dall’aggiunta del prefisso re- al verbo salire ‘saltare, fare balzi, zampillare’, col significato immediato di ‘saltare indietro, ritornare in fretta, di colpo, rimbalzare, ripercuotersi’, ma anche quello, traslato, di ‘ritirarsi, restringersi, contrarsi’” […] e che “Contrariamente a quanto avviene per il sostantivo e il participio-aggettivo, del verbo latino resilire non abbiamo continuazioni in italiano; il francese e l’inglese hanno invece a disposizione rispettivamente resilier e to resile, entrambi derivati da un medio francese resiler ‘ritirarsi’, ‘saltare indietro’, ‘rinunciare’, ‘contrarsi’” (Accademia della Crusca, 2014). ‘Ritirarsi, restringersi, contrarsi, saltare indietro, rinunciare, contrarsi’… Insomma, pare proprio che a suon di traslazioni il significato originale della parola sia stato alquanto ‘adattato’, se è vero che oggi viene tradotto negli ambienti dell’innovazione sociale e culturale come una sorta di adattamento attivo.
Dal mio punto di vista, però, il problema è su un altro piano. I termini resilienza e resiliente si stanno facendo sempre più noti e utilizzati nei medesimi ambienti nei quali cresce il peso dei concetti di innovazione sociale e innovazione culturale, ovvero in quegli ambienti nei quali si pesca a piene mani dalle teorie dell’innovazione di Usher (1929) e, soprattutto, di Schumpeter (1939). Entrambi i vocaboli non sono assolutamente incompatibili (anzi!) con i fenomeni di imitazione o di adattamento nelle fasi di euforia o di crisi dei cicli di innovazione. Dal mio punto di vista l’incompatibilità è direttamente innestata nell’uso spregiudicato dell’invito ad innovare… essendo resilienti. Suona un po’ come dire: ‘cambia rimanendo più o meno uguale’.
Qualcosa non mi torna. Non escludo di essere io a non riuscire a cogliere la sensatezza di questo quasi-ossimoro, anzi dò perfino per scontato che sia proprio così. Eppure mi resta il dubbio di essere di fronte ad una contraddizione insoluta: posso contemporaneamente dire di fare nuovo welfare o cultura e affermare di sostituirmi al servizio pubblico cancellato? Posso cioè coniugare il bisogno di innovazione con la capacità di resilienza? Affrontare la questione sostenendo che “social innovation build a resilient social-ecological system” (SSIR, 2013) non mi pare una risposta dato che afferma un concetto tautologico (se è vero che l’innovazione è tale quando ha successo è intrinsecamente resiliente, almeno temporaneamente).
Le domande pongono un dubbio e anche se non lo risolvono mi pare che da questo dubbio si possano cogliere due conseguenze. La prima, forse la più semplice da affrontare perché a suon di trovarcela ripetutamente di fronte abbiamo iniziato a coglierne i ritorni, è la contemporanea forza e fragilità di quei concetti attraenti che guidati dalle mode vengono ripetutamente traslati, fino ad essere contenuti in azioni che in alcuni casi sono stabilizzate all’interno delle istituzioni (Czarniawska-Sevon, 1996; 2005). La parola viene accettata, usata, ripetuta e così rafforzata per effetto di trend che però non appena vengono scavati, anche solo superficialmente, mettono in luce non poche ombre.
Certo non possiamo pensare di stoppare questi trend, ma dovremmo almeno prenderci la responsabilità di raccontare la storia per intero. La seconda, che per essere affrontata a fondo richiederebbe un lungo lavoro di ricerca, è che varrebbe la pena indagare non tanto le pratiche di resilienza (la bibliografia qui è già lunga), quanto gli esiti che queste pratiche hanno prodotto.
Quando si discute di welfare sociale e culturale il grande dubbio che mi pongo è, ad esempio, se le pratiche di resilienza abbiano favorito processi di isomorfismo (verso le istituzioni, le imprese profit…) oppure se, quali e quanti percorsi di innovazione abbiano generato. Fintanto che ci si focalizzerà sullo studio di ‘esperienze resilienti’ è quasi scontato che scopriremo che sopravvivono più delle altre, anche perché se no non sarebbero resilienti appunto. Ma quanto sono state in grado di innovare, di prefigurare o addirittura approcciare nuovi paradigmi? Qui, dal mio punto di vista, la partita si fa più interessante e non darei mai per scontato di scoprire cose non scontate.