Ascesa e declino di un trapano elettrico, si potrebbe riassumere così una storia simbolica della sharing economy dalle sue origini a oggi. Sono passati solamente cinque anni da quando Rachel Botsman – guru indiscussa dell’economia collaborativa – provocava il pubblico di una TED Conference a Sidney con una domanda all’apparenza banale: ci serve il trapano o il buco nel muro? E che dire dei tanti cd, libri, dvd, che tutti abbiamo a casa? Vogliamo oggetti in bella mostra nelle nostre librerie o desideriamo leggere un romanzo, ascoltare musica, vedere film? In altre parole, vogliamo il prodotto o l’utilità che genera?
La risposta è sembrata subito ovvia, anche se pochi fino a quel momento si erano posti il problema acquistando un trapano che – secondo fonti più o meno affidabili – usiamo pochi minuti in una vita (tredici per l’esattezza, chissà calcolati come).
Dal trapano elettrico alle tante risorse sottoutilizzate il passo è breve: l’auto parcheggiata per ventitré ore al giorno (qui qualche statistica c’è), la borsa firmata, pagata una fortuna e usata solo per le grandi occasioni, fino al vestito del bambino oramai troppo piccolo: tutti beni con una “capacità a riposo” che sono lì ad aspettare di essere utilizzati in modo più efficiente.
La risposta a questo colossale spreco – prosegue il noto teorema del trapano e del buco – è “condividere”. Nasce così la sharing economy: l’idea di mettere insieme chi ha una stanza libera, l’auto o il proverbiale trapano, e chi cerca un posto per dormire, deve spostarsi da un posto a un altro o fare lavoretti a casa.
Sembrano piccole cose, ma la posta in gioco è enorme: all’orizzonte si profila una società collaborativa in cui il conflitto e perfino la necessità di lavorare scompaiono e il capitalismo è relegato a piccole nicchie di mercato.
In realtà, mentre il trapano continua la propria marcia trionfale, guadagnandosi l’apertura di molti discorsi sulla sharing economy e divenendo il simbolo di una nuova economia dell’abbondanza dal sapore comunitarista, il mercato nel frattempo cammina per la sua strada. E a ripercorrerla anche noi ci accorgiamo che in questi anni a crescere è stato un modello di condivisione on-demand, in cui le risorse sottoutilizzate sono soprattutto tempo libero, capitale umano, talento – scegliete pure la formula che preferite, tanto significano tutte una sola cosa: lavoro – con buona pace del trapano, dei buchi nei muri e di amenità simili.
Ad una conferenza del World Economic Forum di qualche settimana fa, alla domanda su quale espressione ritenesse più appropriata per definire le nuove forme economiche, un’altra autorità mondiale in materia, Arun Sundararajan, ha risposto: “sharing economy”, perché – ha aggiunto – massimizza il numero di persone che comprendono ciò di cui si discute; come a dire, parliamo di sharing economy perché ci facciamo capire da tutti, e anche perché piace a tutti, ma la condivisione spesso c’entra poco o nulla. È lo stesso economista a suggerire in alternativa la formula, meno accessibile ma certo più calzante, “crowd-based capitalism”. Gli economisti parlano di “mercati bilaterali”.
Mentre l’organizzazione d’impresa e i mercati si trasformano, gli osservatori della sharing economy – abbandonata l’affannosa ricerca della definizione perfetta – sembrano sempre più divisi tra apocalittici, che preannunciano un tetro futuro di lavoro precario e sottopagato, e integrati che ci raccontano di buone pratiche di condivisione e di crescente voglia di comunità.
Un articolo apparso qualche settimana fa con un titolo che lascia pochi dubbi su quale sia il fronte prescelto – “The sharing economy is dead, and we killed it” – rilegge l’età dell’illusione del trapano condiviso e la confronta con la fine ingloriosa delle molte imprese davvero ispirate allo spirito di comunità, per concludere che la sharing economy nella sua forma ideale non si è mai realizzata: a sopravvivere, e talvolta a prosperare, sono solo imprese con un deciso orientamento al mercato, mentre a portare avanti modelli di vera condivisione sono solo pochi visionari spesso disposti a rimetterci di tasca propria.
A giudicare dalle reazioni sui social network, il pezzo è suonato come una sorta di “liberi tutti”, un grido di dolore che ha dato forma a perplessità dapprima intuite, poi sussurrate e infine proclamate a gran voce. “Mi raccomando, non nominate il trapano” – raccomandava un post che mi è capitato sotto gli occhi qualche giorno fa, a proposito di una delle tante iniziative sul tema rilanciate su Facebook – esprimendo un monito e una preghiera: parlate pure di sharing economy ma, per favore, non raccontateci ancora storielle edificanti su condivisione e post-capitalismo. Comprensibile, certo, ma per farlo è proprio dal trapano che dobbiamo ripartire: per provare a capire coma mai, da simbolo di una promessa, si sia trasformato nell’arco di pochi anni nell’emblema di una grande disillusione.
Cosa ci insegna l’irresistibile ascesa e l’altrettanto inarrestabile declino del trapano elettrico? Innanzitutto, che se ancora pochi sono disposti a chiedere in prestito un oggetto che costa poche decine di euro, prendendosi la briga di cercare chi ne ha uno per poi andare a ritirarlo e riportarlo indietro a lavoro finito, una ragione c’è e occorre prenderla molto sul serio. Quello che una narrazione ad effetto ci ha fatto sembrare come ovvio è ancora oggi una scocciatura alla quale pochi trovano sensato sottoporsi. Gli economisti parlano di alti “costi transattivi”.
Dobbiamo perciò analizzare le singole pratiche di condivisione per verificare la loro realizzabilità in concreto e capire in che modo sia possibile immaginare un modello di condivisione realmente sostenibile, rimuovendo almeno in parte gli ostacoli che rendono oggi poco percorribili molte di esse. L’evoluzione tecnologica – blockchain e miglioramenti nella logistica in testa – potrebbero cambiare tante cose nei prossimi anni.
Del resto, molte aziende che oggi fanno successo in rete hanno progenitori che sono miseramente naufragati perché nati con qualche anno di anticipo. Infine, parlare del declino del trapano, significa riflettere sui limiti di un modello di narrazione fondato sull’appello alle emozioni e all’aneddotica e sulla necessità di affidarci maggiormente al riscontro empirico e all’approfondimento teorico. Solo così potremo indagare le ragioni dell’insuccesso di modelli di condivisione su scala ridotta orientati alla comunità.
Non è divertente come la storia dei buchi nel muro – lo ammettiamo – ma è l’unica alternativa che abbiamo per non sentire più il rumore frastornante di un trapano elettrico.